Quando un uomo su una gamba incontra un uomo su due gambe…

L'esito imprevedibile, o forse no, di una gara di corsa molto particolare svoltasi tanto tempo fa

Il giugno del 1986 non fu particolarmente caldo. Il mito dell’estate italiana sapientemente governata dall’Anticiclone delle Azzorre resisteva ancora anche se, in realtà, il suo declino era già in atto. Per decenni l’anticiclone amico era giunto puntuale, tra la terza e la quarta settimana di giugno, a vegliare sulle nostre estati. Calde sì, ma piacevoli. Il cugino africano, più ruvido e sgarbato, con le sue temperature roventi, lo avremmo conosciuto meglio solo in seguito.

I convegni serali di corse al trotto all’ippodromo di San Siro avevano avuto inizio. Un appuntamento che Secco e Martello raramente mancavano.

Le loro stagioni non erano scandite dai comuni canoni astronomici o meteorologici.

La primavera iniziava a metà marzo, con la tradizionale, e imperdibile anche per due trottisti come loro, riapertura dell’ippodromo del galoppo. L’estate invece era divisa in due parti: la prima andava dal primo convegno serale al trotto fino alla chiusura dell’impianto, per le vacanze, mentre la seconda si svolgeva perlopiù fuori sede con le trasferte verso i cosiddetti ippodromi balneari, come Cesena o Follonica, o con le puntatine verso Le Bettole, l’ippodromo di Varese. L’autunno coincideva con la ripresa dell’attività ippica milanese, nel mese di settembre, fino alla chiusura del galoppo un paio di mesi dopo. L’inverno era la parte dell’anno in cui si correva solo al trotto, in genere tre volte alla settimana.

Questo calendario particolare riguardava la maggior parte dei cavallari. Chi aveva famiglia, o era costretto a intrattenere relazioni sociali più complesse, viveva con una sorta di doppia agenda. I tentativi, piuttosto goffi, di sovrapporle, in genere non andavano a finire bene. Succedeva, ad esempio, quando mogli e fidanzate venivano condotte in luoghi apparentemente normali salvo poi scoprire che l’hotel, magari pagato da loro, si trovava non lontano da un ippodromo presso il quale avrebbero passato la maggior parte del tempo.

Quella serata alle corse era stata particolarmente loffia. Un paio di vincenti alla pari erano valsi un bilancio in sostanziale pareggio. Nessuno aveva voglia di tornare a casa presto.

Fu quindi deciso di andare a far visita al Dottore, un galoppista puro che snobbava il trotto considerandolo una disciplina meno nobile. Preferiva, in mancanza d’altro, il biliardo di un baraccio di terz’ordine, in Via Caccialepori. Si aggregarono anche i fratelli Bottazzi. Due studenti della Bocconi che si odiavano a causa di una donna. Si contendevano una brunetta poco appariscente, compagna di università, anche se girava voce che fosse stato il più giovane a scalzare il fratello maggiore che per questo se l’era legata al dito.

Il bar era semideserto e puzzava forte di fumo rancido. Il Dottore parve sorpreso nel vederli arrivare ma sorrise mentre si piegava in avanti per tentare il tre sponde di calcio che avrebbe chiuso la partita. Sapeva bene che un colpo vincente avrebbe contribuito ad accrescere il suo prestigio come giocatore. Era uno che ci teneva.

La stecca colpì la biglia nel modo giusto e questa fece il suo sporco lavoro. Gioco, partita, incontro. «Ocio i danèe», disse a voce alta qualcuno in fondo alla sala.

Sono tutti fuori dal bar, a fumare. Parlano delle solite cose, qualcuno lancia la proposta di andare a Campione ma non c’è grande entusiasmo.

«Sbarbati, la volete fare una scommessa?»

A parlare era un tale che a un primo sguardo sarebbe anche potuto sembrare un innocuo topo da bar di morti di fame. Trasandato, sudaticcio, scarpe da tennis scalcagnate. Erano però già troppo esperti per non sapere che invece poteva essere uno che si era fatto giusto qualche anno di casanza.

«Cioè?», risposero quasi in coro, ma guardinghi.

«Uno davanti all’altro, io che corro 50 metri con una gamba sola contro chiunque di voi che ne corre normalmente 100. Facciamo andare mezza gamba, se tocco terra con due piedi ho perso. »
Mezza gamba era la posta in gioco, ossia cinquantamila lire.

Si guardarono senza parlare, ma fu immediatamente chiaro quello stavano pensando tutti: era una rapina! Una rapa nel gergo della malavita, una facile vittoria il significato traslato nel mondo delle scommesse.

Non pensavano di poter perdere, ma temevano il babbo. Cioè di giocare contro niente: se perdi paghi, se vinci non incassi. E se trovi quello sbagliato paghi in ogni caso.

L’aria tra i loro corpi si stava caricando di energia. Sguardi furtivi, ammiccamenti. La voglia c’era. Tanta.
«Senti», disse Secco, «ci stiamo, ma a due condizioni: primo, facciamo una gamba, noi siamo in tanti, secondo, diamo la fresca in mano al barista e chi vince prende tutta la rebonza. »

«Ok sbarbati, cos’è non vi fidate del Renato? Mica vi voglio fabbricare. Allora va una gamba.»

Fare andare cioè confermare che il colpo va, che la scommessa è accettata regolarmente. Ovviamente non nel senso vagamente legale che il termine potrebbe avere in altri contesti.

Ebbe inizio la raccolta dei soldi: un deca il giovane Bottazzi, tirchio e cacasotto com’era deve aver proprio pensato di rubare. Il fratello invece solo uno scudello «Sono stirato…» e il resto se lo divisero gli altri tre. Secco e Martello facevano cassa comune.

«Scusate ma chi corre?» chiese il maggiore dei Bottazzi.

Guardarono tutti Martello. Era il più giovane, e anche quelle messo meglio, almeno sulla carta.
«Si, si, corro io che voi non potete circolare. Lo prendo in venti metri quel budino su una gamba. »

Poi, guardando Secco dritto negli occhi, «Questa, socio, è una rapa vera!»

Il sangue di Secco cominciò a scendere di temperatura. Conosceva bene quello sguardo. Perdere centomila lire non significava nulla per loro, temeva molto di più la clamorosa figura di merda, il non poter raccontare l’impresa il giorno dopo, l’onta di essere fregato da un balordo da quattro soldi.
Cominciò a guardare il resto della scena con occhi diversi. Martello che buttava la sigaretta ancora accesa sull’asfalto e si metteva in posizione, e poi due tizi, spuntati da non si sa bene dove, tutti presi a misurare, a lunghi passi, la distanza da correre e i rispettivi punti di partenza.

Era da poco scoccata l’una di notte quando tutto sembrava pronto. Uno dei due tizi si posizionò in mezzo alla strada per bloccare le auto eventualmente provenienti da via Rubens mentre l’altro avrebbe iniziato la procedura di partenza a un suo gesto.

L’uomo più lontano fece dunque un gesto col braccio, come un saluto, e il facente funzione di starter iniziò il conto alla rovescia.

«Pronti, partenza, via!»

Il corridore monogamba, che aveva atteso il via in una plastica posa da fenicottero, prese a saltare come un grillo a una velocità incredibile. Martello era veloce ma, semplicemente, non c’era partita. Il fenicottero-grillo vinse facile, tra gli schiamazzi dei pochi avventori rimasti nel bar.

Nel gruppo di amici scese il gelo. Volarono bestemmie. Martello, stravolto, ne tirava più di tutti, a raffica.
Secco avrebbe solo voluto morire. Sciogliersi sull’asfalto e scorrere in forma liquida verso qualche tombino. Bevuto da ratti di fogna e poi pisciato fuori. Si sentiva uno straccio, un fallito, un coglione.

«Ci hanno lavorato…» provò a dire il Dottore, che poi scoppiò a ridere come un pazzo. E giù altre bestemmie, ma stavolta catartiche, liberatorie.

«Quello con una gamba è troppo avvantaggiato…»

A dirlo era un anziano signore in ciabatte, con una canottiera giallo canarino per metà fuori dai pantaloni e al guinzaglio un buffo cagnolino dal muso bianco e nero. Fuori dal bar non c’era, per cui doveva aver osservato tutta la scena dalla finestra di casa sua. Quante altre volte prima di allora?

Secco preferì non chiedere. Disse soltanto: «Devo bere, andiamo da qualche parte».

Quella notte aveva preso loro qualcosa: un po’ di soldi e brandelli di orgoglio. Ma aveva anche dato una lezione che a lungo andare sarebbe stata utile.

Erano tempi in cui l’esperienza valeva ancora qualcosa. Certo, non come un secolo prima, ma molto di più di pochi decenni dopo quando il digital divide avrebbe separato le generazioni, cancellando forse per sempre il passato dalla vita quotidiana.

Sulla strada, per loro, c’era ancora tanto da imparare.