Da LBJ a Durant passando per CP3, le stelle che emigrano: è un problema per la Nba?

Durant è andato ai Warriors per vincere il titolo come fece LBJ a Miami: c'è un problema di competitività nella Nba?

Vi ricordate questo prolungato contatto ravvicinato tra Draymond Green e LeBron James nel finale di gara 4 a Cleveland nelle Finals del 2016? La Nba dopo avere revisionato il filmato squalificò per una partita Green, costretto a saltare gara 5, per raggiunto limite di Flagrant Foul. Riguardatelo, perché tutto ciò che è appena successo nell’ultima stagione dei Warriors potrebbe essere nato in questo preciso episodio.

I Warriors avanti 3-1 persero gara 5 e le due successive. Lo shock derivante dall’essere la prima squadra a farsi ribaltare da una situazione di vantaggio così ampio in finale convinse la dirigenza che mancava qualcosa. Ed effettivamente, al netto delle magie di LeBron James e Kyrie Irving e delle condizioni fisiche pericolanti di Curry, le ultime tre partite dimostrarono che Golden State faceva fatica a costruire buoni tiri fuori dal sistema quando le partite punto a punto venivano trasformate in un duello individuale.

Fu in quel momento che si decise di provare a portare nella baia Kevin Durant. E in quel momento la storia è cambiata. Messo un secondo Mvp su un telaio già di livello assoluto, i Warriors hanno dominato la regular season e chiuso i playoff con una sola sconfitta. Vale la pena ricordare che questa cavalcata iniziò il 25 ottobre 2016 con una disfatta, la sconfitta casalinga 129-100 contro gli Spurs poi battuti 4-0 in finale di Conference. Giusto per sottolineare come l’innesto di una pedina del genere non sia stato facile né immediato, merito supremo di Steve Kerr e del coaching staff dei Warriors. La storia è cambiata a tal punto che molti sono spaventati e si domandano cosa succederà nei prossimi anni. I quattro All Star dei Warriors, Curry, Durant, Thompson, Green, sono tutti sotto i trent’anni, se trovano il modo di venirsi incontro economicamente possono durare un lustro e aprire la più grande dinastia nella storia dello sport moderno. Questo migrare delle stelle verso approdi che garantiscano possibilità di vincere il titolo, spalmato sul nuovo salary cap, genera un problema di competitività nella Nba?

Partiamo da lontano. Molti di quelli che oggi si lamentano di come tanto talento sia agglomerato in poche squadre dimenticano che il fenomeno è in voga da oltre un decennio. I primi a provarci furono i Lakers nel 2003-04, quando per provare a strappare il titolo agli Spurs aggiunsero a O’Neal e Bryant anche Karl Malone e Gary Payton, colonne di Jazz e Sonics che accettarono di chiudere la carriera con un’altra maglia pur di mettersi un anello al dito. Andò male e l’anello lo indossarono i Detroit Pistons asfaltandoli 4-1 in finale. Lì si disintegrò anche il rapporto di Shaq con i Lakers e il centro se ne andò a vincere un quarto titolo a Miami nel 2006 anche se non si può parlare di migrazione perché quella era la squadra di Dwyane Wade e O’Neal ebbe un impatto marginale ormai a fine carriera. I Celtics che tornarono a vincere il titolo nel 2008 dopo un digiuno ventennale lo fecero grazie all’innesto di Kevin Garnett da Minnesota e Ray Allen ancora dai Sonics, altri due che accettarono di convivere con Paul Pierce per coronare il sogno di una carriera.

Mettere tante stelle attorno allo stesso pallone, come dimostrato dai Lakers all’epoca, non è sinonimo di vittorie. Spesso i problemi sono superiori ai vantaggi. La migrazione suprema, quella di LeBron James che sposta i suoi talenti a South Beach nel 2010 e tradisce Cleveland per vincere insieme a Wade e Bosh, ha prodotto quattro finali consecutive, due anelli ma anche due sconfitte brucianti con Dallas al primo anno nel 2011 e con San Antonio nel 2014. Ma ancora una volta è a causa di LBJ che la percezione comune si sposta dall’accettabile all’inaccettabile.

Malone, Kemp, Garnett, Allen, (e prima ancora Drexler ai Rockets nel 1995) erano tutti giocatori nella parabola discendente della carriera che spendevano l’ultimo gettone per provare a vincere un titolo. LeBron James aveva 25 anni quando andò a Miami, era in piena fase ascendente. Tradiva Cleveland, città natale, per dividere fasti e allori con altre due stelle. Non era mai successo. I giocatori franchigia nella percezione collettiva venivano scelti al draft e poi provavano a vincere facendo crescere la squadra, non se ne andavano in squadre già pronte a vincere. E’ il destino dei numeri uno: trascinare la loro franchigia ancora più in alto, se hanno in sorte di finire in un’organizzazione vincente, o di trasformarla in vincente se la loro storia è fatta prevalentemente di sconfitte. Gli americani, e non solo loro, storcono il naso davanti a una piega del genere, e tendono a diventare intransigenti se un prescelto non solo abbandona la sua franchigia, ma anche il tetto sotto cui è nato. Gli Heat divennero tra le organizzazioni più detestate degli Stati Uniti, perché James mandava un messaggio che non corrispondeva ai canoni comunemente accettati e condivisi: ‘Sono il più forte ma non ce la faccio da solo, e così vado dove qualcuno può darmi una mano’. Nemmeno gli altri potevano farcela da soli, perché la storia dimostra che in solitaria un anello Nba non lo vince nessuno, ma lo scenario prevedeva questo per il più forte dei più forti.

Da quel momento un muro è crollato. E soltanto vincendo il titolo nel 2016 LBJ ha purificato il suo peccato originale ed è tornato nella lista degli eroi dopo essere stato a lungo in quella dei negletti. Per Kevin Durant il discorso è stato simile. E non dimenticate che i Thunder andarono in finale nel 2012 con un quintetto che riuniva lui, Russell Westbrook e James Harden. Altro caso di agglomerato di stelle trovatesi insieme per buone scelte di mercato e di Draft e che insieme non sono riuscite a vincere. Quando Durant a luglio 2016 ha scelto i Warriors, ha preso una direzione precisa. E’ andato in una squadra che aveva appena battuto il record di vittorie in regular season, 73, per renderla ancora più forte. Per questo la similitudine con Higuain che passava dal Napoli alla Juventus ci sembrò calzante. Giochi in un’organizzazione che ti permette di competere ai massimi livelli (i Thunder erano stati avanti 3-1 contro i Warriors nella finale di Conference prima di essere ribaltati) ma sei consapevole che contro quegli altri alla lunga non puoi vincere. Così ti unisci a loro.

Un altro uomo franchigia che sceglie la strada più comoda per il successo, secondo molti. In realtà la situazione era più frastagliata, anche emotivamente. I Warriors erano nelle condizioni anomale, grazie a un contratto sottodimensionato della loro stella Steph Curry, di avere spazio salariale per firmare Durant. E Durant è stato convinto da questo preciso discorso fatto dal management dei Warriors: ‘Se resti ai Thunder puoi vincere un titolo, forse due. Se vieni da noi possiamo aprire una dinastia senza precedenti’. Punti di vista, ma rifiutare è difficile. Perché la prospettiva di vincere è allettante, ma quella di entrare nella storia lo è ancora di più.

Ed era difficile anche la convivenza con gli Splash Brothers, sulla carta. Nessuno ricorda più i dubbi e ‘come fanno con un pallone solo?’, ma ce n’erano. Il fatto che rapidamente i Warriors si siano trasformati nella più letale macchina da canestri nella storia del basket, al contrario di molti degli esempi precedenti, è un loro merito e un merito di Durant. Che doveva anche risolvere l’etichetta di giocatore sublime ma tendente a scomparire nei momenti decisivi dei playoff, soprattutto contro LeBron James. Etichetta stracciata con quei sette punti consecutivi nel finale di gara 3, con i 35 di media nelle Finals, con il trofeo di Mvp. Dal punto di vista di Durant, missione compiuta su tutta la linea.

Dal punto di vista della competitività, come abbiamo visto nel paragone tra i Warriors del 2017 e i Bulls del 1996, la Nba ha sempre attraversato fasi cicliche di dominio di una squadra, o due diverse squadre nella Western e nella Eastern Conference. Il dubbio è che a Durant venga rimproverata la scelta per gli stessi motivi che all’epoca coinvolsero LBJ, anche se le basi tecniche erano diverse. E fanno parte di una cultura sportiva imbevuta di epica nella quale una scorciatoia per vincere, anche se scorciatoia non è, viene sempre biasimata. Durant è nativo di Washington ma a Washington non ha mai giocato, non ha una città natale nella quale tornare dopo avere fatto incetta di titoli al contrario di James.

Ma è giusto sottolineare come il re sia la causa diretta e indiretta della genesi di questi Warriors. E’ stato lui per primo, dal punto di vista dei giocatori, a dimostrare che sportivamente anche se non eticamente era legittimo cambiare squadra per provare a vincere. E’ stato lui, con quella folle rimonta nelle Finals 2016, a convincere Golden State che dovevano fare qualcosa per arginarlo se lo avessero avuto di nuovo di fronte. E’ un paradosso che coinvolge il numero 23 dei Cavs dall’inizio della sua carriera e che un giorno approfondiremo. E’ un giocatore che ha disputato otto finali in carriera, di cui sette consecutive, vincendone tre e perdendone cinque. Significa che la sua enorme superiorità tecnica e fisica ha costretto tutti i suoi avversari a trovare una maniera, a volte estrema, per fermarlo. Il caso di Durant ai Warriors, comunque lo si voglia guardare, comincia in ogni caso con lui. Quello di Chris Paul ai Rockets, essendo conseguenza diretta del secondo, pure. Vale lo stesso per Paul George e Carmelo Anthony che vanno ad affiancare Russell Westbrook a OKC. In maniera indiretta, perché non è detto che i Wolves possano vincere o farlo a breve, anche il passaggio di Jimmy Butler da Chicago a Minnesota segue gli stessi principi. Per concludere con il caso scoppiato in casa, Kyrie Irving che ha chiesto la cessione e l’ha ottenuta andando a Boston in cambio di Thomas e della prima scelta 2018, per essere padrone del proprio destino prima che LBJ lo diventasse per lui la prossima estate.

Il salary cap, la possibilità che questo nucleo dei Warriors rimanga intatto oltre questa stagione (nodo Iguodala da risolvere) e la successiva (Curry a scadenza), sono problemi per il prossimo futuro. Il presente dice che da oltre dieci anni nella Nba i giocatori più forti cambiano maglia per provare a vincere il titolo o un riconoscimento individuale. Torniamo di nuovo a quei Thunder con Durant, Westbrook e Harden in finale nel 2012. A distanza di cinque anni il primo ha vinto un titolo, il secondo ha chiuso la prima stagione in tripla doppia di media dall’epoca di Oscar Robertson e il terzo potrebbe essere Mvp della stagione a Houston. Giocando insieme non sarebbe mai successo. Mettetevi nei panni di una stella Nba e probabilmente converrete che dal loro punto di vista hanno ragione loro.