Golden State nella storia, è la squadra più forte di sempre?

I Warriors del 2016 e 2017 hanno abbattuto i record dei Bulls di Jordan del 1995-96. Si può dire che sono la squadra più forte di tutti i tempi? Apriamo il dibattito

Tra le tante clausole e accordi che legano la Nba ai suoi fornitori, ce n’è anche una praticamente sconosciuta nella quale si stabilisce che le retine dei canestri di ogni arena vadano cambiate entro e non oltre sette partite giocate dalla squadra di casa. Somiglia un po’ a quella del tennis nei tornei degli Slam con le palle nuove utilizzate ogni sette games. Ora la leggenda narra che alla Oracle Arena, casa dei Golden State Warriors, da quando è arrivato Kevin Durant le retine vengano cambiate dopo ogni partita. E al loro centro di allenamento ancora più spesso.

Le retine in fiamme tanto da doverne buttare una a partita sono la metafora più istintiva per la squadra che ha sicuramente il più alto potenziale offensivo nella storia del basket, che ha appena eguagliato un’impresa vista una sola volta nella storia della Nba. Vincere il titolo giocando i playoff quasi perfetti, 16 partite e 1 sconfitta. I Sixers del 1983, quando si giocava un turno in meno, vinsero 12 partite con 1 sconfitta. I Lakers del 2001 fecero 15 vittorie e 1 sconfitta perdendo gara 1 delle Finals contro i Sixers di Allen Iverson, ma il primo turno si giocava al meglio delle cinque partite. Nessuno oltre a loro c’era mai riuscito. Ma i Warriors, non da questa stagione, il gioco l’hanno rivoluzionato, ribaltato, si sono infilati nella storia e nei libri dei record al punto che oggi al secondo anello in tre stagioni, dopo tre finali consecutive, la domanda è legittima. Sono la squadra più forte di tutti i tempi?

La domanda non è peregrina, a patto di comprenderne l’essenza. Paragonare epoche, giocatori, sistemi sportivi ed economici completamente diversi tra loro non ha molto significato. Però è così che negli States compilano le loro gerarchie. In un paese che vive come un senso di colpa il deficit di storia rispetto al vecchio continente, c’è brama di inserire per sempre nella storia chi per diversi motivi è meritevole di starci. Ora i Golden State Warriors non sono soltanto la squadra che ha abbattuto Cleveland, i campioni in carica. Non solo solo quelli che abbattendo i Cavs abbattono anche LeBron James, ovvero uno dei tre più grandi giocatori di tutti i tempi in un’altra classifica che è quasi impossibile stilare. Sono qualcosa di diverso, di unico nella galassia Nba, ed è da qui che bisogna partire.

Non è il 4-1 in finale il punto di partenza e nemmeno la paura, di cui parleremo, che con l’innesto di Durant questa squadra sia diventata talmente troppo più forte da generare un problema di competitività nella Nba. La partenza è che i Golden State Warriors, l’eccellenza per la quale adesso tutti sognano di giocare, un tempo erano la peggiore franchigia della Lega. Non troppo tempo fa, fino ai primi anni del nuovo millennio. Questo per esempio è un punto in comune con i Chicago Bulls, che nell’edizione 1995-96 sono considerati quasi all’unanimità la squadra più forte di ogni epoca. Paragonare quei Bulls a questi Warriors è stuzzicante per vari motivi.

Anche se nella storia di dinastie ce ne sono sempre state e spesso il gioco l’hanno cambiato seppure non rivoluzionato. I Celtics che giocarono dieci finali con Bill Russell, Bob Cousy e Red Auerbach in panchina dal 1957 al 1966. I Lakers che ne giocarono quattro consecutive tra il 1982 e il 1985, otto in dieci stagioni tra il 1980 e il 1989 quando il concetto di contropiede e Showtime andò a braccetto con l’epoca della tecnologia e della televisione grazie a Magic Johnson, Kareem Abdul Jabbar e Pat Riley. Stessa epoca nella quale i Celtics ne giocarono quattro consecutive tra il 1984 e il 1987, cinque in sette stagioni con Bird, Parish, McHale, senza che nessuno si preoccupasse che in finale ci andavano praticamente sempre Los Angeles e Boston, anzi la Nba ci costruì sopra la rivalità più bella di tutti i tempi. Gli stessi Lakers di Shaq e Kobe Bryant, tre titoli dal 2000 al 2002 e poi tre finali senza Shaq tra il 2008 e il 2010. I Miami Heat di LeBron James, quattro finali consecutive tra il 2011 e il 2014. Solo per ricordare che tre finali consecutive tra le stesse squadre, Golden State e Cleveland, è un fatto inedito ma non causato da circostanze insolite in questa Lega. Che ciclicamente, come la storia vera, si ripetono.

Insomma i Bulls di Michael Jordan e questi Warriors. All’epoca Chicago giocò sei finali in otto stagioni, e i due anni di buco nel 1994 e 1995 coincisero con il ritiro del più grande che se ne andò a giocare a baseball devastato dall’omicidio del padre. Le vinse tutte, toccando l’apice nel 1995-96 con le 72 vittorie in regular season e fino a quel momento nessuno ne aveva vinte più di 69. Quando il numero 23 arrivò a Chicago da rookie trovò una situazione disastrata, poche migliaia di spettatori allo Stadium, e ci vollero sette anni per trasformare quei calcinacci nella dinastia più celebrata del basket moderno. Con i Warriors c’è un punto comune. Phil Jackson ai Bulls arrivò quasi per caso, senza pedigree, anzi con molti mugugni attorno perché era un ex hippy che predicava di filosofia e meditazione in un mondo di uomini duri dove circolava molta, troppa droga. Fu una scommessa estrema di Jerry Krause, il gm dei Bulls, altro uomo nato come dirigente nel baseball. A Golden State nel 2014 vollero Steve Kerr in panchina, che non aveva mai allenato una singola partita. Lui scelse la California invece di New York, dove proprio Phil Jackson, che lo aveva allenato ai Bulls, lo voleva per ricostruire i Knicks. Fosse andato nella mela, la sua carriera sarebbe stata diversa e di Golden State come squadra più forte di tutti i tempi non si sarebbe mai sentito parlare.

Steve Kerr da giocatore metteva triple con precisione svizzera come Klay Thompson ed era tra i pochi a non farsi mettere i piedi in testa da Michael Jordan nel suo bulimico furore agonistico che travolgeva anche compagni e dirigenti. Una volta uscì con un occhio nero da una rissa con lui in allenamento, si guadagnò il rispetto del 23, segnò il canestro della vittoria del titolo su assist di MJ nel 1997, piena epoca del secondo three peat. E’ ovvio che quella Chicago e questa Golden State abbiano un filo comune. Se pensate che sullo Steve Kerr allenatore non influisca il fatto di essere stato allenato da Phil Jackson e avere avuto come compagno di squadra Michael Jordan, vi sbagliate. Ha vissuto l’epopea dei Bulls da dentro e ne ha trapiantato la parte migliore ai Warriors nella fase peggiore della sua vita dal punto di vista della salute. E ha vinto due titoli nelle prime tre stagioni da allenatore. Solo altri tre nomi nella storia ci erano riusciti. I primi due furono Bill Russell e John Kundla. Il terzo proprio Phil Jackson. Anche questo non è casuale.

Qui cominciano le differenze e le comparazioni. I Bulls che vinsero il titolo nel 1996 avevano Jordan, Pippen e Rodman. Del 23 parliamo dopo. Pippen era il secondo violino più pregiato di tutti i tempi e uno dei dieci migliori giocatori dell’epoca, Rodman era abbondantemente il migliore difensore e rimbalzista del pianeta. E giocavano con il triangolo di Tex Winter, che nell’interpretazione jordaniana fu davvero una rivoluzione tra i professionisti perché, come oggi i Warriors, portando Jordan spalle a canestro non dava punti di riferimento alle difese avversarie. Supporting cast: avevano Ron Harper che si era riciclato a uomo di sistema dopo essere stato prima punta ai Clippers, avevano Toni Kukoc tra i migliori sesti uomini della Lega, avevano Steve Kerr specialista dall’arco. Non avevano lunghi indimenticabili, Luc Longley e Bill Wennington, ma erano funzionali al sistema e non richiedevano in cambio troppi palloni da giocare, avevano Jud Buechler, Jason Caffey e John Salley che chiudevano la rotazione.

I Warriors hanno un supporting cast paragonabile ma forse superiore. Veterani arrivati per vincere il titolo come David West, ex All Star, lunghi su cui si nutrivano dubbi come Zaza Pachulia e Javal McGee, Livingston, Barnes e McCaw a chiudere la rotazione. Come quei Bulls, hanno quattro All Star: Steph Curry, Klay Thompson, Draymond Green e Kevin Durant. Quei Bulls però avevano un solo Mvp della stagione, Michael Jordan. Questi Warriors ne hanno due, Curry e Durant. Quei Bulls non avevano un uomo che usciva dalla panchina con l’impatto difensivo di Iguodala, uno che ha vinto il titolo di Mvp delle finali nel 2015 e che adesso è solo il quinto uomo in ordine di pedigree del roster. Dire quale delle due squadre sia più forte non ha senso, ma ha senso paragonarle.

Dal punto di vista anagrafico i Warriors hanno un vantaggio. Curry, Durant, Thompson e Green sono tutti sotto i 30 anni. Sono nella fase ascendente della carriera e hanno ancora margini di sviluppo notevoli. I Bulls nel 1996 avevano Jordan a 33 anni, Pippen a quasi 31, Rodman a 35, Harper a 32, Kerr a 31, l’unico sotto i trent’anni era Kukoc che ne aveva 28. Era un gruppo di veterani al massimo dello splendore ma nella fase finale della carriera, due o tre stagioni al massimo come poi la storia ha confermato. Per arrivare a cifre simili, i quattro All Star di Golden State dovrebbero giocare insieme almeno altre quattro stagioni e anche allora non saranno al capolinea della carriera.

Stiamo al volo sui risultati. I Bulls del 1995-96 vinsero 72 partite in regular season. Record battuto dai Warriors nel 2015-16, vent’anni dopo, con 73. Per raggiungere quel traguardo probabilmente hanno sacrificato il titolo perché Curry si è infortunato ai playoff senza recuperare completamente, Thompson, Green e Iguodala sono arrivati alle Finals con la lingua di fuori. Ma perdere quelle finali in quel modo assurdo, avanti 3-1 con i Cavs, è stata la scintilla che ha innescato l’operazione Durant. Se avessero vinto il titolo probabilmente non l’avrebbero cercato. Se l’avessero cercato probabilmente non ci sarebbe andato lui. Non metti un Mvp in un ingranaggio perfetto che ha vinto due anelli consecutivi. Non vai a provare a vincere un titolo in una squadra che ne ha già vinti due di seguito. Così invece Golden State ha completato i playoff quasi perfetti, 16 vittorie e la sola sconfitta a causa di una prestazione irreale e irripetibile dei Cavs. I Bulls migliori della storia vinsero 3-0 con gli Heat al primo turno, 4-1 con i Knicks in semifinale di Conference, 4-0 con i Magic nella finale di Conference e 4-2 nelle Finals contro i Sonics. Fa 16 vittorie e 3 sconfitte. I Warriors sul piano dei numeri battono i Bulls due volte.

I Bulls, in sei finali, solo una volta giocarono contro lo stesso avversario per due anni di seguito, nel 1997 e 1998 contro gli Utah Jazz. Vediamo velocemente i loro avversari. Nel 1991 i Lakers a fine ciclo, con Magic Johnson prossimo all’abbandono per la sieropositività. Nel 1992 i Blazers che avevano una sola stella conclamata come Clyde Drexler. Nel 1993 i Suns di Charles Barkley che vinse l’Mvp della stagione dopo il trasferimento a Phoenix, con Kevin Johnson in regia ad alimentarlo. Nel 1996 Shawn Kemp e Gary Payton erano due tra i primi quindici giocatori della Nba dell’epoca, ma non tra i primi cinque. Stockton e Malone nelle due stagioni successive furono lo scoglio più difficile da superare. Parliamo del migliore assist man di tutti i tempi e dell’interpretazione più fisica e funzionale dell’ala grande nel basket moderno insieme a Tim Duncan. Quei Jazz però avevano poco talento attorno all’asse play-ala, persero entrambe le finali combattendo 4-2 ma anche i Bulls del 1998 non erano più gli stessi, divorati da gelosie interne, dissidi tra dirigenze e giocatori e la schiena di Pippen che andava in mille pezzi. I Bulls in definitiva hanno quasi sempre avuto avversari diversi perché quella Nba non permetteva l’aggregazione di stelle nella stessa squadra come quella odierna. Ma soprattutto il migliore giocatore di tutti i tempi giocava con loro.

La più grande differenza è questa. Che i Warriors, nelle loro tre finali, hanno sconfitto due volte la squadra che schierava il più grande giocatore della sua epoca. LeBron James. Uno che sul podio dei migliori di tutti i tempi può starci, e ci starà, insieme proprio a Jordan, a Wilt Chamberlain in un dibattito che potrebbe proseguire all’infinito. Uno che in queste Finals ha giocato in tripla doppia di media, nessuno ci era mai riuscito. Golden State ha dovuto affrontare per tre stagioni una squadra che aveva non soltanto il più grande della sua epoca, ma anche Kyrie Irving che è tra i primi cinque esterni della Nba. E Kevin Love, che quando arrivò da Minnesota era uomo da oltre 20 punti e oltre 10 rimbalzi di media, il rimbalzista più efficace tra le ali. Sono due prime e una quinta scelta assoluta al Draft. Togliete il 2015 quando Irving e Love non parteciparono alla finale e avrete due finali consecutive, una persa per un soffio e una vinta dominando, contro una squadra che a Est ha dominato molto più di quanto abbiano dominato a Ovest tutte le avversarie incontrate dai Bulls in finale. La cavalcata trionfale, il 4-1 delle Finals con l’unica sconfitta che rende onore a una grande avversaria, ci fa dimenticare che i Cavs sono arrivati all’ultimo atto perdendo una sola partita ai playoff e avevano il record di 13 vittorie consecutive in post season, altro dato dimenticato perché cancellato dai Warriors. E’ un altro paragone impossibile, ma si può dire che il grado di sfida e difficoltà rappresentato da LeBron James e dai Cavs sia superiore a quello incontrato dai Bulls nelle loro sei finali vinte.

E’ vero anche che al contrario, giocando sempre contro lo stesso avversario, impari a conoscerlo meglio anno dopo anno, cosa che a Jordan e ai Bulls non capitava. Però i Warriors hanno abbattuto o eguagliato due record che si pensava inossidabili, quello delle vittorie in regular season e quello dei playoff chiusi con una sola sconfitta. Sono considerazioni che trascendono dal tempo, dai giocatori e dalle epoche. Non a caso appartengono a due sole squadre nella storia. Come il triangolo di Phil Jackson e Tex Winter, anche la Death Lineup di Steve Kerr ha rivoluzionato la Nba generando una squadra da quasi 120 punti di media a partita. I Bulls del 1996 erano la migliore espressione di un basket dai ritmi più bassi nel quale si segnava poco come i Warriors del 2017 sono la migliore espressione di un basket offensivo nel quale si tende a incentivare l’attacco e lo spettacolo.

Ecco un’altra differenza, o meglio dove sta la rivoluzione dei Warriors. Steph Curry (7° scelta al Draft 2009), Klay Thompson (11° scelta al Draft del 2011), Draymond Green (35° scelta al Draft del 2012), nessuno di loro quando è entrato nella Nba sembrava avere il potenziale per diventare una superstar. Invece, insieme, ci sono riusciti. Hanno reso credibili tiri che prima non venivano nemmeno pensati, hanno mandato in crisi gli algoritmi di Nba 2K. E’ una rivoluzione più grande di quanto avvenne quando Jordan arrivò nella Nba. Lui era un’evoluzione, sia pure insuperabile, di Julius Erving e ha evoluto il gioco come gli altri grandi prima di lui. I Warriors sono partiti da una base inedita, sulla quale nessuno aveva mai costruito una dinastia, e l’hanno perfezionata con Durant. Ecco perché è giusto che stiano nella discussione sulla squadra più grande di sempre. Una però aveva il migliore giocatore di tutti i tempi, l’altra ha trovato la maniera di legare insieme alcuni dei talenti migliori della Lega con un’efficacia senza precedenti, trovando la forza di migliorarsi spinti dalla sfida cui LBJ, tra i migliori di tutti i tempi, li ha costretti. E il motivo lo lasciamo alla prossima puntata.