Le esultanze “buone” e “cattive”: da Malesani a Di Canio, passando per Juary…

Un tema sempre caldo e dibattuto. Se ne discute da anni: c'è chi invoca decoro e chi si innamora dei gesti spontanei e scomposti. E poi c'è anche chi chiede scusa...

L’esultanza. Un tema sempre caldo e dibattuto. Se ne discute da decenni, da una parte chi invoca decoro e decenza, dall’altra chi esalta i gesti scomposti. Come quello di Alberto Malesani, che nel 2001 impazzì sotto la curva del Verona per festeggiare la vittoria nel derby dopo aver trascorso otto anni sull’altra panchina. Commovente o ridicolo? Spontaneo o preparato? Bandiera o banderuola? Legittimo o esagerato? Orgoglioso o vergognoso?

Il modo si divise da sempre in benpensanti e Male-pensanti ma di fatto quella questione non si è mai risolta. La ragione da una parte e il cuore dall’altra: quello di chi non vuole rassegnarsi a pensare che uno che esulta come un pazzo, gonfio di gioia sotto la curva dove si sono accomodati i propri vicini di casa, debba essere additato come lo squinternato di turno. Perché se la globalizzazione ha fatto il suo corso anche nel mondo pallonaro non è detto che le voci fuori dal coro dell’omologazione, e dentro il coro delle curve, debbano ogni volta essere criminalizzate.

Le esultanze “buone”
Sono quelle imitate dai bambini nei parchi, quelle che vorremmo che i nostri bambini adottassero in un momento di gioia. Sono animate da buoni sentimenti o più semplicemente da sana goliardia, alcune volte pensate a tavolino e organizzate nei particolari, altre spontanee. Come la giugulare di Tardelli al secondo gol nella finale dei Mondiali ‘82, lo stato dell’arte dell’esultanza romantica ed emotiva. E un encomiabile senso della telecamera, centrata pienamente dallo sguardo commosso del futuro campione del mondo. Rimanendo in ambito calcistico vanno citati alcuni antesignani delle moderne esultanze post-gol: come Hugo Sanchez e Thomas Skuhravy che salutavano ogni segnatura con capriole da ginnasta, il messicano da mezzo metro più in basso rispetto al ceko che, a dispetto dell’abbondante metro e novanta, non andò mai incontro a figuracce.

E a proposito di corner come dimenticare la corsa dell’avellinese Juary, uno dei primi stranieri piovuti in Italia dopo la riapertura delle frontiere: il brasiliano segnava (spesso) e poi si dirigeva verso la bandierina del corner che circumnavigava con un balletto di sapore carioca. Non meno caratteristico della culla mimata da Bebeto per salutare la nascita del figlio o del samba in cui si esibiva il napoletano Careca dopo ogni gol, poco importava se l’assist fosse stato di Maradona che col Brasile aveva poco a che spartire. A tenere alte le sorti dell’Argentina nella competizione coreografica ha sempre pensato Gabriel Batistuta, capace di sorprendere le difese come di escogitare esultanze cinematografiche: nel corso della stagione 96’-’97 salutò il gol realizzato a San Siro e che valeva la SuperCoppa con un “Irina ti amo’ strillato alla telecamera, pochi mesi più tardi azzittì prima con una rete e poi con un gesto eloquente il Camp Nou di Barcellona.

Palcoscenici hollywoodiani per un attore nato: che al Franchi aveva preso l’abitudine di andarsi a mettere in posa alla bandierina del calcio d’angolo, tanto da ispirare una statua ai tifosi della curva Fiesole. D’altra parte l’argentino a Roma trovò terreno fertile: la piazza giallorossa è sempre stata culla di gesti eclatanti, dall’aeroplanino fatto atterrare anche nella Capitale da Montella, all’orecchio esposto ad ogni gol da Marco Delvecchio verso la curva sud a al ciuccio di Francesco Totti. Fino a risalire al bomber del primo scudetto, Roberto Pruzzo, l’inventore dello strip in gara, il primo a togliersi la maglietta e a mostrarla al proprio pubblico festante. In seguito questa moda dilagò al punto da giustificare un’ammonizione a chiunque rimanesse in canottiera: anche perché nel frattempo sulle magliette della salute erano comparsi auguri, messaggi criptati e spot pubblicitari dei rispettivi sponsor tecnici. Le principali varianti-Pruzzo furono apportate da Ravanelli (che si copriva la faccia con la maglietta) e da tale Vlaovic che una volta a Piacenza si tolse la divisa da gioco e per evitare il richiamo dell’arbitro sotto ne esibì un’altra identica. Genio. Sul fronte accessori non va dimenticato l’anello che il madrileno Raul baciava ad ogni segnatura e lo scarpino che Moriero lustrò a Recoba qualche anno fa per ringraziarlo di una punizione telecomandata.

Così come il Bari di Joao Paulo e Protti che inventò il trenino dell’esultanza: o Marco Simone che nel 1994 per eseguire l’ormai diffuso tuffo di petto sotto la curva si lussò una spalla e dovette dire addio al Mondiale. Ultimo, ma non ultimo, anzi primo per fascino ed eleganza l’inchino eseguito da Marcelo Salas: un gesto intimista, al limite del metafisico. Ma il calcio non detiene l’esclusiva dell’esultanza folcloristica, sono diverse le discipline e i campioni degni di nota: a partire da Valentino Rossi che nel 1997, anno del suo primo trionfo in 125, fu capace di presentarsi sul podio una volta con l’arco e la freccia di Robin Hood, un’altra con la bambola gonfiabile di Claudia Schiffer e un’altra volta ancora col costume di Superman.

Sempre in tema di motori, singolare fu l’utilizzo di parrucche rosse da parte del team Ferrari (Montezemolo e Todt inclusi) dopo la conquista di un Mondiale: ancora più scalpore destò la festa della McLaren della stagione precedente a cui partecipò anche il grande sconfitto di quel giorno, Michael Schumacher. E destinate a rimanere nella memoria degli sportivi di tutto il mondo sono anche l’indice di Pietro Mennea dopo l’oro sui 200 metri a Mosca e l’immagine di Borg che si inginocchia a Wimbledon per cinque anni di seguito. Poi è arrivato l’arco di Usain Bolt, nuova mezzala del Borussia Dortmund…

Le esultanze aggressive
Quando si prova piacere e ci si lascia trasportare dalla passione si corre il rischio di trascendere, di compiere atti di cui in genere ci si pente un quarto d’ora più tardi: ecco perché nascono nel mondo bimbi inattesi, ecco perché talvolta un momento di gioia può sfociare in rabbia. E la ragione farsi immediatamente torto.

Non è il caso di Tommie Smith e John Carlos, velocisti americani che vinsero le Olimpiadi di Città del Messico nel 1968 e poi ascoltarono l’inno nazionale col pugno nero verso l’alto per manifestare contro le discriminazioni razziali. Ma è sicuramente il caso di Robbie Fowler, centravanti del Liverpool che per festeggiare un gol finse di sniffare la riga di fondo campo: rimediò parecchie giornate di squalifica, più o meno quelle affibbiate a Mazzone per la sfuriata contro la curva atalantina durante Brescia-Atalanta. Di Carletto il pubblico bergamasco aveva profanato la romanità e la famiglia, obiettivi sensibili per Mazzone che sul 2-3 promise e sul 3-3 mantenne, percorrendo 50 metri di campo verso la curva nerazzurra, vanamente placcato dal vice e dal quarto uomo.

Meno clamoroso ma altrettanto leggendario il dito provocatorio esposto da Paolo Di Canio verso la curva romanista nella stagione ‘85-’86, un gesto che imitò quello di cui qualche anno prima fu protagonista Giorgio Chinaglia, peraltro già protagonista di un paio di corna indirizzate al pubblico del S. Paolo. Così come non fu di grandissimo gusto la maglietta esibita da Francesco Totti (“Vi ho purgato ancora”) al termine del derby vinto dalla Roma nel ritorno della stagione ‘98-’99.

Quelli che non esultano
Ci sono poi quelli che per un motivo o per l’altro ingoiano la gioia collettiva del momento magico e all’esterno fanno trasparire imbarazzo per rispetto verso la tifoseria della squadra in cui si è militato fino all’anno prima: una moda lanciata recentemente su vasta scala ma che annacqua una delle figure retoriche più affascinanti del calcio planetario. Il gol dell’ex.

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