Enrico Schiavina: enciclopedia delle Minors, fortitudino sui generis, guardia tiratrice

Enciclopedia delle Minors, l'ex giornalista di Superbasket ripercorre gli anni trascorsi in redazione, tra mille aneddoti divertenti.

A Superbasket, lo vidi arrivare il primo giorno con una macchina rossa scappottata e pronti-via scambiai la sua timidezza per spocchia. In realtà Enrico è la persona alla quale poi negli anni mi sono legato di più, tra i ragazzi della redazione. Con lui e i suoi amici ho diviso anni di lunedì devoti alla pallacanestro “giocata”. “Facciamo paniere”, mi dicevano e io non capivo. E non capivo neanche quando mi dicevano di “salire” o di “scendere”, che poi equivaleva a entrare e uscire. Enciclopedia delle Minors, Enrico, ti sapeva dire chi allenava la B2 di Zafferana Etena o la media delle palle perse del miglior marcatore della C2 girone B. Fortitudino fondamentalista, pure. Tanto affetto per lui.

Ho riso molto realizzando questa intervista, ripensando a situazioni e personaggi. Tutto Vero. Grazie davvero Enrico, soprattutto per esserti preso due mesi per partorire queste risposte. Ne è valsa la pena.

Giornalista prima di tennis e poi di basket: passaggio indolore o sofferto?
«Due vite diverse. Devo tanto al tennis, ma anche in quei tempi lontani la mia vera passione era un’altra. Alle tribune stampa dei tornei del Grande Slam preferivo le palestre scolastiche di periferia dove mi ostinavo a giocare a basket, nei campionati più infimi. A un livello che conosci benissimo, visto che a un certo punto c’eri anche tu… Poi sei sparito, mentre io punti nelle mani ne ho ancora».

Un tuo ricordo degli anni di Superbasket.
«Ne sono stato un avido lettore fin dal primissimo numero, novembre 1978, ma non ho mai conosciuto, né amato, Aldo Giordani. Mi riconosco invece negli anni bolognesi di SB, quelli del suo maggior splendore. Era bello far parte di quella squadra superspecializzata, ti dava la sensazione – e la trasmetteva ai lettori – di poter controllare tutto: A1 e A2, NBA e college, coppe e campionati esteri, nazionali e giovanili, la femminile, fino alle mie amatissime serie minori».

Avevi creato una rete che copriva tutta l’Italia delle Minors.
«C’era dentro di tutto, da quello che poi ha fatto carriera a Sky al tipico corrispondente del quotidiano di provincia da trent’anni al suo posto. Molti di mestiere facevano altro, dal professore universitario all’edicolante, qualcuno era bravo ed altri un disastro, ma erano tutti accumunati dalla grande passione per lo scrivere di basket. Oggi lo possono fare tutti, all’epoca era un privilegio».

Senza internet, e nemmeno le mail.
«C’eri e lo sai, ogni domenica una battaglia, fin nel cuore della notte. Telefonate disperate in tutta Italia a caccia di informazioni sulle partite, tragicommedie all’ordine del giorno. Come quella volta che per sapere qualcosa di uno spareggio in Sicilia, dopo mille chiamate a vuoto, trovai un giocatore che conoscevo che partì con un discorso pieno di altruismo e valori di squadra, poi gli chiesi il tabellino e lui se lo fece dettare da qualcuno e me lo ripeteva, credendo che io quella voce lontana non la sentissi. Invece arrivati al suo nome i suoi punti sentii che erano 11, ma lui a me disse 18… Oggi fa l’allenatore in B».

Orbitavano certi personaggi…
«Stranissimi, dentro e fuori la redazione. La corrispondente di Campli, provincia di Teramo, era rintracciabile solo chiamando una pizzeria di lì, dove lavorava dopo le partite. Non aveva altri numeri, ti dettava il tabellino e il pezzo sulla partita tra le ordinazioni di margherite e quattro stagioni. Una dei nostri un po’ distratta una volta confuse i numeri e chiamò Campli per ordinare le pizze per la redazione. A 350 km da Bologna, il rischio era che arrivassero freddine».

Aggressioni, risse, squalifiche, erano il tuo pane quotidiano.
«Sono un integralista del fair play costretto a convivere da sempre con la brutalità più esasperata. Non restava che riderci sopra. A Rieti un arbitro prese un cazzotto e Gigi Ricci, un fuoriclasse dei corrispondenti locali, scrisse che “condivideva nel merito ma non nel metodo”. Noi pubblicammo, e quella frase diventò un tormentone».

Hai visto cose che noi umani…
«Ho visto impiccare manichini, sputare su giocatori mentre uscivano in barella, ho visto radiocronisti che con una mano reggevano il microfono per un commento tutto sommato moderato e con l’altra inveivano contro gli arbitri, bava alla bocca. A Teramo un giornalista locale si alzò dal suo banchetto a bordo campo per assalire un arbitro, ma fu placcato appena in tempo ed espulso. Se ne andò in redazione e scrisse: “bella partita, da segnalare il tentativo di invasione solitaria di un facinoroso”. Che era lui…».

Puoi fare una classifica della brutalità?
«Ho visto cose truci ovunque, dalla Sicilia al Triveneto, compresa ovviamente la mia Bologna, passando per il vecchio hangar di Montegranaro, come logistica forse il campo più difficile d’Italia. Spesso anche adesso mi cascano le braccia, ma quei tempi erano peggiori di questi. Piano piano, con enorme fatica e lentezza, la cultura sportiva migliora. Solo che ci vorranno altri decenni per arrivare ad un livello accettabile».

Il più forte tennista che hai visto giocare dal vivo.
«Tutti quelli degli anni 80 e 90, ma nessuno di loro è stato grande come Federer e Nadal. E sarà una bestemmia, ma per me se uno vince undici volte a Parigi, più tutto il resto, può essere considerato il Goat. Almeno pari allo svizzero».

Il più forte cestista che hai visto giocare.
«Tanti, senza rendermi conto dell’immenso sedere che avevo a trovarmi lì a due passi. Jordan, Magic, Jabbar, Bird, Olajuwon, Shaq, Barkley… E pure Drazen, che ho amato moltissimo. Ma non riesco a far classifiche. Sfuggo alla morsa di quelli che rimpiangono i tempi che furono. Li sento dappertutto, disprezzare il basket moderno, ma l’idea che una volta fosse tutto più bello è semplicistica, sbagliata. Per lo più è effetto nostalgia, ne soffre chi era giovane negli anni 80 e 90 e oggi non lo è più».

Nessun rimpanto per quei tempi?
«Le squadre da 10, come da natura del gioco: 5 in campo e 5 in panchina. L’allargamento a 12 ha annacquato tutto, ed è una piaga biblica a livello giovanile. E poi certi giocatori-cult, oggi introvabili».

Le bandiere che non esistono più?
«Non solo. Il Bomba Bonaccorsi diventava istantaneamente un idolo in ognuna delle centomila squadre in cui ha giocato. Eppure ne combinava di ogni. A Cefalù, in piena partita, scommetteva la cena con un ristoratore in parterre che avrebbe tirato e segnato da nove metri: ha spesso mangiato gratis. In B2 a San Giovanni Valdarno lo pagavano a punti segnati, con bonus per i punti di scarto nel derby con l’odiata Montevarchi. Ne fece 51, rifiutando il cambio per l’applauso nel finale, per arrotondare il bottino. A Pistoia invece, intervistato in diretta su RaiSat, chiese un attimo di tempo a Franco Lauro e uscì dall’inquadratura per andare ad azzuffarsi con due tifosi che lo insultavano. Un paio di cazzotti e poi tornò all’intervista, tranquillissimo. Certe storie oggi è più difficile scovarle».

Sei un fortitudino dichiarato ma moderato. Come vivi questa tua passione?
«Mettiamola così: ho smesso da una vita di fare tifo per la Fortitudo, ma non ho mai smesso di essere fortitudino. Sono due cose diverse. Mi ritengo un fortitudino molto atipico, lontanissimo dagli stereotipi, che poi il più delle volte propongono falsi miti. Il derby di Bologna più che altro è un gioco di ruolo di massa».

Quanti derby hai vissuto dal vivo e quale ricordi con più piacere?
«Tutti a partire dal numero 19, era il gennaio del 1975. In totale fa 87 su 105. Con gli anni raccogliere materiale sul derby è diventa un’ossessione, che prescinde dall’essere nato come tifoso di una delle due, sfociata poi in un paio di libri sull’argomento. Il derby più bello per qualsiasi fortitudino di una certa età è certamente quello del sorpasso del 1988, ma è tutto relativo. Se hai qualcosa da festeggiare a 25 anni, quando puoi star fuori a far baldoria con gli amici tutta la notte o imbarcarti in trasferte folli, avrai ricordi di un certo tipo, di tutt’altro se ti capita quando di anni nei hai il doppio ed hai schiena dolorante, figli, mutuo e la sveglia alle sei. Così un ottavo di finale può contare più di uno scudetto».

Bologna è ancora Basket City?
«Più che mai. S’è visto l’anno scorso nel primo derby in A2, forse il più importante di sempre, perché la sproporzione tra can-can mediatico e livello tecnico dimostrò quanto conti a prescindere. La F e la V possono anche fare schifo, non importa. Fai il test del baule della macchina: scegli un parcheggio a Bologna, fattene aprire un certo numero a caso, guardaci dentro e conta in quanti c’è dentro la palla arancione, tenuta lì per ogni evenienza. Poi ti sfido a trovarmi un’altra città con una percentuale più alta di palloni da basket nel bagagliaio».

Foto Archivio Privato Giancarlo Migliola