Montorro, Limardi, Valenti, Gotta, Benzoni, Schiavina, Melloni: il mio Dream Team!

Ho avuto il privilegio di lavorare in quella redazione per sei anni. Eravamo una squadra vera, pure nelle nostre diversità. Uno per uno, pregi e difetti dei miei colleghi.

Sono entrato nella redazione di Superbasket il 16 agosto 2000, intorno alle 8.30. Arrivando dal monolocale appena preso in affitto, di fronte alla Curva ospiti dello Stadio Dall’Ara. Via dello Sport, 33. Come i miei anni e quelli di Gesù Cristo. Mi era sembrata, evidente, una chiamata dall’Alto…

Sono entrato in redazione senza vantare un parente giornalista. Senza una Laurea o un Corso specifico. Senza un’idea di cosa mi attendesse. Senza aver fatto un giorno di gavetta.

In compenso, con un attacco di dissenteria prodotto di un nervosismo ingestibile. Mi venne ad aprire Claudio Limardi, era il primo giorno dopo le ferie estive, e la redazione era mezza vuota. Alla mia postazione trovai il poster di Marcelo Salas e della Lazio campione d’Italia.

Franco Montorro, che si era battuto per portarmi a Superbasket, conosceva le mie simpatie giallorosse e quanto lo scudetto biancocelese avesse influito sulla mia scelta di lasciare Roma per Bologna.

Quello fu il mio primo giorno da giornalista (praticante), dopo nove anni da specialista informatico. Un mese prima calcolavo la retribuzione spettante a un parroco di Molfetta, un mese dopo intervistavo Emanuel Ginobili a Piazza dei Martiri. Pagato per fare quello per cui pagavo fino a qualche settimana prima. Ovvero, guardare pallacanestro.

Davanti alla mia postazione Stefano Benzoni, forlivese, interista fondamentalista, l’anima candida della redazione. Quando chiamava uno scocciatore, e succedeva, era la cortesia di Benzo a gestire la criticità. Uomo d’altri tempi, nel 2000 era ancora scettico rispetto all’avvento dei DVD e dei CD, ancora affezionatissimo a VHS (o Super 8, ancora meglio) e musicassette. Quando qualcuno chiamava per lamentarsi dei valori da noi attribuiti ai giocatori del FantaBasket NBA, Benzo rispondeva che quel numero era stato prodotto da un “cervellone elettronico”. Non da un computer, da un “cervellone elettronico”, che faceva molto Anni 70. Di Benzo non posso cancellare un’immagine, quella trasfigurata del 5 maggio 2002 dopo il 4-2 della Lazio sull’Inter.

Alla mia destra, nella redazione di Via Gamberini che poi fu abbandonata per gli uffici di Castel Maggiore della Cantelli Editore, Roberto Gotta. Generalmente silenzioso ma dotato di un senso dell’umorismo acutissimo, irresistibile. Quotidianamente immerso in centinaia di news che stampava da siti che trattavano NBA, NFL, NCAA, MLB o Premier League. Un’enciclopedia vivente, capace poi di tramutare in poesia tutte quelle conoscenze. Mai una banalità. Erano quelli gli anni del primo Galeazzi imitato da Savino. Aspettavamo insieme l’ora di pranzo per ascoltare RadioDeejay, poi ogni tanto capitava che qualcuno di noi fosse al telefono con un addetto ai lavori famoso e che la telefonata si chiudesse con “Ah ciao Ataman, grandissimo, un abbraccio, ti seguo sempre”. Il resto ve lo lascio immaginare.

All’estrema destra, posizione che politicamente non lo rappresenta, Enrico Schiavina. Lo vidi arrivare il primo giorno con una macchina rossa scappottata e i primi giorni scambiai la sua timidezza per spocchia. In realtà Enrico è la persona alla quale poi negli anni mi sono legato di più. Con lui e i suoi amici ho diviso anni interi di lunedì devoti alla pallacanestro giocata. “Facciamo paniere”, mi dicevano e io non capivo. E non capivo neanche quando mi dicevano di “salire” o di “scendere”, che poi equivaleva a entrare e uscire. Mago delle Minors, Enrico, ti sapeva dire chi allenava la B2 di Agrigento o i punti di media del miglior marcatore della C1 girone B. Fortitudino fondamentalista. Tanto affetto per lui.

Di fronte ad Enrico, Claudio Limardi, vice-direttore negli anni in cui arrivai a SB. Un fenomeno inspiegabile, lui. Famiglia bellissima e molto numerosa, runner semi-professionista, giornalista extra-lusso capace di scrivere nello stesso giorno un’analisi approfondita dei problemi difensivi dei Bucks per American SB, un’intervista a Massimo Bulleri e la presentazione del turno successivo di Eurolega. Senza mai una sciocchezza, una smagliatura, una dimenticanza. Io facevo un terzo delle cose che faceva lui, da single e senza correre, e con un quinto della sua qualità. Fenomeno, appunto. Non ci siamo parlati tanto in quegli anni ma solo per reciproca timidezza. Paradossalmente, ci siamo conosciuti meglio dopo le mie dimissioni, arrivate a gennaio 2006.

Ultimo ma non ultimo, Stefano Valenti, che la scorsa settimana ho intervistato per Infobetting. Fabrianese, per sua stessa ammissione la personalità meno solare della redazione ma poi bastava fare in modo che si fidasse di te e tutto cambiava. Io ci ho messo un po’, per colpa/ignoranza mia, non sua. Oltre a mille altre cose, seguiva stabilmente la Nazionale, che in quegli anni vinceva medaglie agli Europei e alle Olimpiadi. Se c’era da fare uno studio approfondito sui motivi per i quali i playmaker di Serie A1 tiravano da 3 meno rispetto alla stagione precedente, il pezzo era suo. Stefano andava in apnea e ne usciva tre giorni dopo con 38.000 battute, 5 box e 2 tabelle. Per la gioia dei grafici. Suo lo scoop relativo al trasferimento di Gianluca Basile al Barcellona. Un settimanale che brucia i quotidiani… Arrivarono poi insulti e minacce perché quella “voce” di mercato avrebbe destabilizzato la Fortitudo campione d’Italia.

La stanza a fianco era occupata da Franco Montorro, il direttore. Fu lui a decidere di portarmi a Superbasket dopo aver riso tanto con l’house organ della Virtus Roma che mi divertivo a fare dal 1994. Preferendomi a stimati professionisti, tra l’altro consigliati (giustamente) dalla redazione stessa. E invece no, un romano, sconosciuto e senza esperienza. Per questo motivo proverò gratitudine eterna per Franco: senza la sua ostinazione, in questo preciso istante sarei alle prese col modello 730 di Don Claudio, da Montefalco.

Nei sei indimenticabili anni trascorsi a Superbasket, credo di non essere mai uscito a mangiare una pizza con i miei cinque colleghi di redazione, che poi divennero sei con l’innesto strategico di Mirco Melloni. Eravamo diversi, avevamo esigenze diverse e situazioni familiari diverse. La pizza poi la mangiavamo insieme, giocoforza, tutte le domeniche, quando ci vedevamo alle 17 per poi lasciare la redazione intorno alle 2.00, dopo aver chiuso il giornale. Non avevamo bisogno di fare gruppo, perché nelle nostre differenze eravamo una squadra.

Una bella squadra. Da Michael Jordan a Mimmo Morena, da Carlton Myers a Susanna Bonfiglio. Noi sette (poi otto) coprivamo tutto, lavorando sodo e quasi sempre col sorriso sulle labbra. 

Come mi ha suggerito Stefano Valenti, aggiungendo un box: “Quella è stata una delle ultime redazioni fisiche vere, dove si lavorava insieme, ci si riuniva, c’erano ruoli e responsabilità, si studiava e pensava basket, tutti i giorni. C’era un gruppo di 7-8 persone che tutti i giorni avrebbe condiviso la giornata parlando di basket nello stesso luogo. Un evento unico e che resterà unico”.

Ora siamo sparsi per l’Italia, tra uffici stampa e redazioni, ma quando ci incrociamo in qualche palazzetto un abbraccio non manca mai. Sobrio. Composto. Nel linguaggio condiviso per anni.

Franco, Claudio, Stefano, Enrico, Roberto, Benzo e Mirco. GRAZIE.

Grazie a voi, quelli sono stati gli anni più belli della mia vita!

Archivio privato Giancarlo Migliola