Paperella e quei 6700 metri

A volte ricordiamo il nostro passato con più dolcezza del dovuto. Il tempo è una lente deformante ma guai a perdere la memoria di ciò che è stato

«Ma ve ne volete annà, mortacci vostra!»

Paperella era un ristorante-pizzeria dalle parti di Tor di Valle. Nonostante l’affaccio diretto sulla trafficata via Ostiense non lo rendesse un luogo particolarmente ameno, tutto sommato si stava bene.

All’una di notte passata, ci stava che il proprietario tentasse di sloggiare me e Robertino per andarsene finalmente a casa.

La causa del nostro indugiare era dovuta alla presenza di un tizio di Napoli, di cui non ricordo il nome, che si era seduto al nostro tavolo quasi senza invito. Un personaggio incredibile, un vulcano di aneddoti che non ci stancavamo mai di ascoltare. Una notte gli era persino capitato di tornare a casa, dalla moglie, senza pantaloni perché se li era giocati ai dadi. Si era arrangiato con un asciugamano e una spilla da balia.

Un tipo a suo modo ingegnoso, fuori da coordinate spazio-temporali chiaramente definibili. Sarebbe stato a suo agio in un film neorealista, ripreso da Roberto Rossellini o Carlo Lizzani mentre si giocava le braghe tra le rovine di una città bombardata, ma anche venti o trenta anni dopo, a fare da sfondo colorito alle imprese di Bruno Fioretti e Armando Pelliccia, al secolo Gigi Proietti ed Enrico Montesano.

Sapeva che Robertino lì era di casa, conosciuto da tutti, qualche volta suo malgrado. L’esperienza di sedere al suo stesso tavolo per mangiare una pizza si trasformava spesso in una mangiata clamorosa, senza aumento di prezzo.

«A Robertì mannaggia a te fatte sti du rigatoni co a coda…»

Prima della pizza arrivava di tutto. Qualche volta eccetto la pizza.

Spettacolo puro e indimenticabile.

Il napoletano ben sapeva, e infatti si era scelto il tavolo giusto. Inoltre c’ero io, un giovane nordista pronto ad assorbire come una spugna le sue mirabolanti storie di vita.

Da quell’inizio estate 1989 sono cambiate molte cose. I miei 6700 metri preferiti, quelli che separavano il cinodromo di Ponte Marconi dall’ippodromo di Tor di Valle, non sono più gli stessi.

Paperella non c’è più, chissà da quanto tempo. Non c’è più nemmeno il cinodromo, chiuso nel 2002, e la natura sta gradatamente prendendo possesso anche del glorioso ippodromo del trotto, la cui attività è cessata dopo 54 anni il 30 gennaio 2013. La Roma, intesa come A Maggica, vorrebbe costruire sulle sue ceneri, o poco lontano, il suo nuovo stadio.

Una sola cosa, credo, è rimasta tale e quale.

I romani conoscono già la storia sin troppo bene, gli altri sappiano che, partendo dal cosiddetto ‘snodo Marconi’, ci sono due strade parallele che conducono fino a Ostia. La via Ostiense e la via del Mare, ognuna con la sua bella corsia per senso di marcia, separate in alcuni punti da una specie di griglia metallica, in altri da un semplice guard rail oltre il quale spesso debordano rami di alberi e altra vegetazione.

Un nonsenso urbanistico e viabilistico. Sono passati circa trent’anni e nulla è mutato. Un primo progetto di unificazione risale alla metà degli anni duemila, poi ci aveva provato il sindaco Marino, e infine la sindaca pentastellata Virginia Raggi in un quadro di riqualificazione più ampio.

Al momento però di cantieri non se ne vedono. Il progetto stadio si è arenato nelle solite italiche paludi ma il club giallorosso ci crede ancora. Vedremo come andrà a finire.

Avevo conosciuto Robertino al cinodromo. Un giorno mi prese da parte e mi disse.

«A Pa’ me pari n’osso in mezzo a li cani (non intendeva i nobili levrieri). Er più pulito c’ha la rogna, tutti pieni de buffi.»

Era vero, ma io venivo dal battesimo del fuoco del parterre di San Siro, sapevo come comportarmi senza correre troppi rischi. O forse ho avuto semplicemente culo.

In seguito lo conobbi meglio, fui presentato anche alla sua famiglia, ma di questo semmai scriverò un’altra volta. Era un bravo ragazzo, solo che il demone, in lui, come del resto in molti altri, era particolarmente forte.

Una volta mi propose di sfruttare il mio accento milanese per fare un po’ di soldi. Una truffa in sostanza. Avrei dovuto presentarmi al campetto dove lui allenava una squadra di ragazzini fingendo di essere un osservatore dell’Inter.

«Je dimo: ce dai un mijone e tu fijo va a Milano…»

Intendeva cioè chiedere ai genitori dei suoi giovani allievi un milione di lire per favorire non so bene cosa. Non indagai troppo e naturalmente rifiutai.

Dicono che sia normale ricordare con nostalgia gli anni della propria giovinezza e sovrastimare il valore di certi eventi o di certi personaggi di quel periodo. E’ certamente così.

Di recente ho avuto l’occasione di vedere l’ottimo film del danese Janus Metz, Borg vs McEnroe. Mi è parso di rivivere un evento enorme, pazzesco, ancora oggi strabordante pathos nonostante il finale sia ovviamente ben noto.

Effettivamente la finale di Wimbledon del 1980 lo fu, ma cosa dire allora della leggenda infinita animata dal duo Federer-Nadal?

Non sono abbastanza esperto di tennis per dare giudizi ma chi lo è in genere considera Roger e Rafa i più forti di sempre. Il mio cuore però, durante le loro sfide, non ha mai battuto tanto forte.

Forse un ragazzo nato negli anni novanta potrebbe considerare allo stesso modo la finale di Wimbledon del 2008, vinta dallo spagnolo 9-7 al quinto set.

Dovremmo cercare di essere più consapevoli di come il nostro cervello, attraverso le istantanee scattate nel tempo dai nostri occhi, elabora il passato. Sarebbe un investimento nel nostro futuro, che inevitabilmente un giorno sarà anch’esso passato.

Ma si può realmente ingannare il tempo dell’anima?