Quello che non sapevamo su Michael Jordan (e che The Last Dance ci ha mostrato)

The Last Dance ci ha mostrato Michael Jordan sotto molti punti di vista, alcuni dei quali non avevamo mai davvero preso in considerazione

Ma per essere più precisi rispetto al titolo, quello che gli appassionati di Nba e di Michael Jordan già sapevano ma che non avevano forse mai approfondito così nettamente. Perché The Last Dance, di cui avevamo già parlato dopo le prime due puntate, non dice niente di nuovo a chi la storia la conosceva. Ad altri, chi non era ancora nato all’epoca di quei Bulls e a chi non si era mai avvicinato alla Nba degli anni Novanta, ha aperto un mondo. Questo documentario è stato un capolavoro emozionale, più che storiografico. E se all’inizio si pensava che fosse un focus specifico sulla stagione 1997-98 della squadra più celebre della storia, abbastanza velocemente si è capito che la digressione era più ampia e toccava i cambiamenti del basket e della società americana da quando è comparso Michael Jordan all’orizzonte. E’ stata una visione, e una versione, michaeljordancentrica. Non solo perché il polo magnetico intorno a cui il tutto ruota non poteva che essere lui, ma soprattutto perché non c’è niente di ciò che è stato raccontato che non sia stato raccontato esattamente come lui voleva che fosse raccontato. In altre parole abbiamo avuto la sua visione dell’universo Nba, gioco, allenatori, general manager, compagni e avversari, più che la visione di un prodotto giornalistico equidistante su di lui. Alcuni l’hanno paragonato a un’agiografia. Altri hanno criticato il punto di vista univoco nel taglio delle storie raccontate. Ma un elemento più di ogni altro è venuto alla luce e probabilmente è quello che MJ non solo non aveva intenzione di oscurare, ma neanche modo di farlo se quell’intenzione l’avesse avuta. Tracce che avevamo già trovato nella meravigliosa biografia ‘Michael Jordan la vita’ di Roland Lazenby, ma un conto è leggerlo e un altro è vederlo con i propri occhi.

L’ossessione

Eccoci qua. The Last Dance ad alcuni ha confermato quello che già sapevano. Ad altri l’ha raccontato per la prima volta, ma la sostanza non cambia. E cioè che l’unicità di Michael Jordan nella storia dello sport è una conseguenza e non una scelta. L’aspetto migliore del documentario è che questo punto di vista alternativo non emerge subito, ma si mette insieme pezzo dopo pezzo e si completa solo alla fine dell’ultima puntata. Fino al quinto episodio, quindi a metà della serie, è quasi subdolo nel farci invece credere il contrario. MJ ripete allo sfinimento come l’unico modo per ottenere quelle vittorie fosse essere agonisticamente feroce con chiunque, avversari e compagni di squadra, con il proprio stesso general manager, più in generale con chiunque incontrasse sul proprio cammino. Il sottotesto di Jordan più o meno sembra essere ‘se volevamo arrivare lì in alto, non c’era altro modo di arrivarci’. E uno potrebbe pensare che per vincere, nello sport e nella vita, l’unica strada debba essere quella di calpestare ogni ostacolo da qui al traguardo e non importa se sta dalla tua parte o da quella opposta. Ma ovviamente non è così e la stessa storia dello sport insegna che ci sono tanti modi diversi di vincere per quanti sono i vincitori. Ma è a questo punto che arriva un distinguo fondamentale e mentre sarebbe stilisticamente bello dire che è il confine tra vincitore e vincente a fare la differenza, la faccenda è ancora più sottile. La differenza sostanziale tra Michael Jordan e quasi tutti gli altri sportivi della storia è che stiamo parlando del più grande giocatore di tutti i tempi praticamente all’unanimità, e sta al primo posto anche in gran parte delle discussioni su chi sia stato il più grande sportivo di ogni epoca a prescindere dallo sport che giocava. Stiamo parlando di entrare dentro i meccanismi di un atleta che è di gran lunga più forte all’interno di una elite di atleti che giocano in un campionato che è l’elite di tutti gli altri campionati di pallacanestro del mondo. Non stiamo parlando di una rarità e nemmeno di un’eccezione, stiamo parlando di un’anomalia. Vedendo dieci ore di documentario la tendenza a dimenticare questo elemento c’è, e invece è dirimente. Perché per quanto possa essere coinvolgente e stimolante la narrativa che per ottenere i risultati di Michael Jordan basta fare come Michael Jordan, la verità che emerge da The Last Dance è che l’unico modo per ottenere i risultati di Michael Jordan è essere Michael Jordan. Esserlo, e non farlo. Ed è lo stesso MJ ad ammetterlo semplicemente parlando di sé stesso. ‘Sono sempre stato competitivo e per me la vittoria è un’ossessione’. Non obiettivo, non ambizione, non traguardo. Ossessione. Ovvero ‘un fenomeno psicopatologico che consiste in un’idea fissa o in una rappresentazione mentale accompagnata da un vissuto ansiogeno e che il soggetto non può controllare pur avendone coscienza’. Un elemento che nemmeno Michael Jordan può controllare e lo fa essere esattamente quello che è. Ovvero il più grande sportivo di tutti i tempi, semplicemente perché non poteva essere diverso. Jordan non sceglie di prendere a pugni un proprio compagno e poi scusarsi, non si inventa frasi che non gli sono mai state dette da un avversario per motivarsi, non mette il broncio per avere perso due spiccioli contro la sua guardia del corpo a uno stupido gioco prima di una partita. Lo fa perché non ha modo di evitarlo. Non può essere in nessun altro modo. Non ha scelta. Non c’è un sacchetto con i numeri della tombola dal quale estrae il numero vincente per diventare il più grande di tutti i tempi. C’è un numero solo e c’è un solo copione. John Paxson, uno dei protagonisti del documentario e autore della tripla che valse il titolo del 1993 contro i Suns, forse nel documentario o forse in un’intervista per Espn dice: ‘Andando in trasferta in aereo Jordan giocava cifre mostruose a carte con alcuni compagni. Io e gli altri giocavamo a poker e al massimo puntavamo dieci dollari. Ogni tanto lui arrivava e ci chiedeva se poteva giocare con noi. Io gli chiesi perché voleva mettersi a un tavolo nel quale giravano solo pochi dollari e lui rispose che non importava quanti fossero, era importante che i nostri dollari finissero nelle sue tasche.’ Ossessione. La morale della storia è che nella vita puoi diventare Michael Jordan solo se Michael Jordan ci nasci. E’ un tratto distintivo di praticamente tutti quelli che consideriamo i migliori di tutti i tempi. Michael Schumacher che girava fino a notte fonda a Fiorano. Valentino Rossi che non può smettere di stare su una moto. E’ per inciso anche il motivo per cui molti tendono a rientrare dal ritiro dopo essersi ritirati, e Jordan l’ha fatto due volte, ma è un lato così smaccatamente preponderante e accecante del loro carattere che li distingue dalla massa. Del resto è anche un discorso statistico: se si potesse semplicemente diventare Michael Jordan, se si potesse costruirsi come Michael Jordan, non ce ne sarebbero stati molti di più nella storia, ma qualcuno sì. E invece ce n’è stato uno solo. Come c’è stato un solo Kobe Bryant. Prima di The Last Dance pensavamo che MJ per lui fosse un modello di riferimento assoluto, ma il concetto va affinato. Bryant aveva la stessa ossessione per la vittoria e una volta riconosciuta quell’ossessione dentro di sé è stato fisiologico andare verso Michael Jordan. Essendo diventato MJ la sua ossessione, possiamo parlare di un’ossessione al quadrato. Ma con questo documentario abbiamo anche visto il lato oscuro di possedere una personalità del genere. Ovvero, non avere un’alternativa. Forse, non essere mai completamente appagati se hai una fame del genere che ti mangia dentro. Non riuscire mai a superare le delusioni o quelle che ritieni ingiustizie, come lo smantellamento della squadra del 1997-98. The Last Dance, dopo i titoli di coda dell’ultima puntata, ti fa fare una domanda che non ti aspettavi: Michael Jordan è stato il più grande e il più ricco dal punto di vista sportivo, ma è stato anche felice e appagato dal punto di vista umano? La sua ossessione gli ha mai permesso di esserlo?

La vita parallela

E’ una domanda a cui non si può rispondere, anche se il dubbio esiste ed è piuttosto consistente. Ma è una domanda senza risposta proprio perché di Michael Jordan vediamo solo quello che lui vuole che ci venga mostrato. Ovvero il personaggio pubblico e lo sportivo più popolare del pianeta. Accetta che ci domandiamo se il prezzo da pagare per essere Michael Jordan sia il non essere mai completamente appagato come essere umano, ma ci impedisce volutamente di scoprirlo perché ci preclude in maniera assoluta di scoprire la sua vita privata. Sappiamo che le case in cui sono state girate le sue interviste non sono le sue ma furono affittate appositamente per non mostrarci niente al di fuori del personaggio, fossero anche solo gli arredamenti o le tende delle sue abitazioni. A un certo punto nell’ultima puntata compaiono le interviste ai suoi figli ed immediatamente la percezione è stata quella di un elemento disturbante, fuori posto, che non c’entrava niente con il fluire degli eventi. Tutti sapevano che MJ ha dei figli, ma un conto è saperlo e un conto è vederli parlare del papà senza realmente parlare del papà, ma solo ricordarlo come giocatore quando erano piccoli. La mamma appare spesso e invece la sua presenza è naturale perché abbiamo sempre saputo che Michael Jordan è stato un figlio seguito con costanza dai genitori, sappiamo del suo legame indissolubile con il papà. Se invece ci chiediamo che genere di genitore sia Michael Jordan per i suoi figli, non abbiamo in mano nessun elemento per rispondere alla domanda, nemmeno l’indizio più piccolo. L’altro elemento che The Last Dance ha toccato in maniera impeccabile è proprio questo. Che se una personalità ossessiva e un ego smisurato possono non essere considerati un prezzo da pagare per diventare il più forte di tutti i tempi perché con quella personalità ci sei nato, vivere una vita intera sotto le attenzioni spasmodiche e morbose del mondo intero effettivamente lo è. Come dice lui, tutti vorrebbero essere Mike un giorno ma se potessero esserlo per un anno cambierebbero idea. Perché dare al mondo un simbolo da adorare misticamente significa non avere indietro una gioventù normale. E se progressivamente quella privacy annientata dal suo status è stata recuperata negli ultimi anni, tornano in mente le parole di John Lennon quando provava a spiegare i Beatles: ‘Noi abbiamo dato la rivoluzione musicale al mondo ma in cambio ci è stata tolta la giovinezza’. Jordan e i Beatles hanno molti tratti in comune perché entrambi sono stati più di quello che erano su un campo e su un palco, sono diventati un punto di riferimento sociale e culturale fino a cambiare la società e la cultura, a diventarne parte e colonna fondante. Per questo dal documentario sappiamo che Michael Jordan viveva la quasi totalità delle proprie giornate vestendo i panni del supereroe che tutti vorrebbero essere fino a quando quella pressione divenne insostenibile nell’estate del 1993, nove anni dopo il suo ingresso nella Nba, un arco di tempo simile a quello che i Beatles nella loro forma definitiva hanno vissuto insieme prima di sciogliersi. Non è una vita che si può sostenere a lungo e a pensarci bene forse non è nemmeno particolarmente appetibile perché è un meccanismo che una volta innescato non si interrompe spegnendo l’interruttore. Se diventi Michael Jordan lo sarai per sempre e le implicazioni di un concetto del genere ci riportano al paragrafo precedente. Per sempre, proprio come la tua ossessione. Il succo di The Last Dance è esattamente questo, oltre a tante altre cose. Farci vedere come mai uno e proprio uno solo tra tutti i giocatori della storia può diventare Michael Jordan, con le ombre che sono almeno in numero pari alle luci e non potrebbe essere altrimenti. E’, in definitiva, un piccolo compendio sulla complessità dei sistemi sociali contemporanei e arriva in un’epoca nella quale la semplificazione di quelle complessità è alla base di molti dei problemi della nostra società. Sfumature, dettagli, inquadrature alternative, punti di vista non considerati prima. Si parte da Michael Jordan ma, volendo, si può andare molto oltre la pallacanestro.