Che cosa ci hanno insegnato le prime due puntate di The Last Dance

I primi due episodi di The Last Dance sui Chicago Bulls del 1997-98 ci mettono di fronte a un capolavoro. Ecco, in breve, perché

Viste le prime due puntate di The Last Dance, è difficile non usare l’aggettivo capolavoro. Gli americani hanno un sacco di difetti, ma la narrativa sportiva la sanno fare, tecnicamente l’hanno inventata loro nel modo in cui la conosciamo oggi e in questo caso specifico sono stati anche fortunati perché nel 1997-98 girarono alla cieca un documentario sui Chicago Bulls che a propria insaputa si erano appena trasformati in una sceneggiatura di Quentin Tarantino. Come questo lavoro e questo materiale abbia resistito alla tentazione di essere dato in pasto al mondo per ventidue anni è un mistero assoluto, ma visto che bisogna aspettare altri sei giorni per avere i prossimi episodi fissiamo qui alcuni punti che colpiscono particolarmente della trama e che torneranno ciclicamente fino alla fine del documentario.

Cosa ci insegna The Last Dance

  • Che negli anni novanta i Bulls non solo diventarono Chicago, ma ne divennero sinonimo. Un po’ in questi decenni ce ne siamo dimenticati perché la squadra non è mai stata particolarmente competitiva, ma all’epoca i Bulls erano sulla bocca di tutti gli appassionati di sport, non solo di basket. Erano uno status simbol, come i compact disc e le Nike Air. Prima di loro, Chicago in Europa non diceva niente e se diceva qualcosa era poco lusinghiera. Potevi associarla ad Al Capone, alla mafia italiana, ai Blues Brothers se andava bene, a qualche calembour di basso livello (Chicago, sulle mutande – oppure sui tom Chicago se eri un batterista e conoscevi il blues). Quando arrivarono i Bulls, Chicago divenne una meta che in molti volevano visitare, quasi quanto New York. I Bulls visti a Parigi nel primo episodio erano delle rock star in tour in Europa. La scena più incredibile è alla fine della prima partita al McDonald’s Open quando un avversario che ha appena sfidato MJ sul campo, a fine partita gli strappa dal braccio il polsino per averlo come ricordo. Glielo strappa letteralmente, come un fan che cerca disperatamente un feticcio del suo eroe.
  • E sì, Michael Jordan è comunque il tutto intorno a cui il resto ruota. Chi lo ha visto giocare non lo ha mai dimenticato, ma un conto è ricordarsi di quell’epoca e un conto è rivederla sullo schermo, tanto che ti dispiace che all’epoca non esistessero l’HD e il 4K, in una distonia provocata dalle interviste di oggi in cui si vedono anche i pori della pelle e la barba appena ricresciuta degli intervistati e le azioni di gioco sgranate del tubo catodico. Michael Jordan non era solo di gran lunga il più forte sportivo di tutti i tempi già all’epoca. Era una divinità. E nessuno dopo di lui lo è stato davvero. Il motivo principale è che, semplicemente, vinceva sempre. Non perdeva mai. Di tutti i più grandi campioni della Nba moderna, è stato l’unico a non avere mai perso una finale. Larry Bird, Magic Johnson, Kobe Bryant, LeBron James, Steph Curry, tutti ne hanno persa almeno una. MJ no. Era invincibile. E questo ci porta direttamente al punto successivo.
  • Traspare, nel Michael Jordan di oggi, la totale mancanza di metabolizzazione di come a quella squadra non sia stato permesso di continuare la propria corsa. MJ ciclicamente ha sempre ribadito il concetto che ‘nessuno sul campo ci ha tolto il diritto di continuare a vincere fino al momento in cui avremmo perso, è stato il front office a farlo’. E tuttora non lo accetta. Togli al re la sua corona senza sfidarlo a duello, solo tramite intrighi di palazzo, il senso è questo. E per l’uomo con lo spirito competitivo più estremo che si sia mai visto negli sport di squadra, questo è uno smacco che non si supera. Ci si convive, ma non lo si accetta.
  • Che poi, parliamoci chiaro. The Last Dance è una fotografia anche estrema, cruda, di quanto la Nba di fine anni novanta fosse diversa da quella di adesso. Nel secondo episodio si vedono i Bulls perdere quattro trasferte consecutive a inizio regular season. Con punteggi tipo questi, 83-80, 90-78, 89-86. Punteggi che oggi vediamo alla fine del terzo periodo. I punteggi erano bassi, i contatti fisici erano estremi e i giocatori non avevano nessun potere, contrattuale e decisionale.
  • Tu hai Michael Jordan, l’uomo che non perde mai, e già alla fine del 1997 provi a smantellare la squadra che ha portato la città e la franchigia sulle mappe geografiche di tutto il mondo. Ma stiamo scherzando? Nella Nba di oggi non succederebbe mai. Non con LeBron James, Steph Curry, Kevin Durant, James Harden. Quella di oggi è la lega dei giocatori. Quella di ieri no. E anche un’onnipotenza come Michael Jordan dovette accettare che le decisioni sul futuro della franchigia non solo non le prendeva lui, ma non era neanche in grado di condizionarle.
  • Per questo The Last Dance ci racconta oggi come tutti gli attori di quella stagione fossero consapevoli fin dal primo giorno di training camp che sarebbe stata l’ultima. All’epoca non lo sapevamo, non ci venne raccontato dai media con questa dovizia di particolari e non ce ne rendevamo conto. Non sapevamo che The Last Dance fu il titolo che Phil Jackson diede a quella stagione, sapendo testualmente che ‘pure se vinci 82 partite di regular season, l’anno prossimo ci sarà un altro head coach al posto tuo’.
  • L’aspetto umano, quasi aleatorio, che regna su quei Chicago Bulls è totale. A tratti sconcertante. In due casi specifici. Il primo è quello del gm Jerry Krause. Un uomo brillante come dirigente, ma totalmente incapace di costruire relazioni appaganti dal punto di vista umano. Si evince chiaramente che il suo tentativo di smantellare quei Bulls, alla fine riuscito, non sta nella filosofia nascosta nella sua frase ‘i titoli non li vincono solo i giocatori, ma anche le organizzazioni’. Sta nella necessità quasi fisiologica di liberarsi di persone, non di giocatori, con cui non legava e che lo facevano soffrire dal punto di vista emotivo. Come il celebre litigio con Scottie Pippen sul pullman. Quentin Tarantino allo stato puro. I Bulls, quei Bulls, non furono smantellati dall’inevitabile logorio del tempo che passa. Furono distrutti dalla gelosia e dall’imperfezione dei rapporti umani.
  • Ecco, Scottie Pippen. Se volete un esempio di cosa c’è dietro atleti che sembrano perfetti e indistruttibili dentro un parquet davanti a ventimila persone e al mondo intero che li guarda, andate da lui. Un ragazzo cresciuto in un piccolo borgo di campagna, due genitori che devono sfamare dodici figli, un padre che finisce su una sedia a rotelle quando lui non è ancora adolescente. La storia la conoscevamo. Ma non sapevamo, o non ricordavamo, che anche uno dei suoi fratelli divenne disabile dopo una mossa di wrestling fatta per gioco con un compagno di classe. Se diventi un professionista con queste due immagini dentro la testa, la paura di farti male e rovinare tutto e non avere più un futuro economico possono condizionare le tue scelte più di qualsiasi altra cosa. Per questo scelse sempre contratti lunghi e che tendevano a svalutarsi velocemente rispetto alla vertiginosa crescita economica della Nba e al potere contrattuale dei giocatori. Il famoso uovo oggi rispetto alla gallina domani. La complessità delle dinamiche che portano a certe scelte non la potremo mai conoscere completamente. Ed è per questo che The Last Dance è un capolavoro. Ci apre le porte su stanze segrete di cui non conoscevamo completamente l’esistenza.