Infortunio Ronaldo, il dramma e la gioia di CR7

L'epilogo più amaro per il giocatore più atteso. La finale di CR7 dura sei minuti effettivi, venti di agonia. Poi è costretto a lasciare il campo in un'atmosfera surreale, ma il Portogallo resiste e diventa campione d'Europa

C’è un momento, nella storia del calcio, un piccolo istante in cui il tempo si interrompe. Fermo immagine. E subito dopo va in mille pezzi. Come il cristallo. O come un ginocchio. Quello di Cristiano Ronaldo.

L’idea romantica della sfida solitaria del campione ai padroni di casa che apparecchiano la festa dura sei minuti. Poi il tempo si immobilizza sull’entrata assassina di Payet su Cristiano Ronaldo. Non c’è intenzionalità, forse. Cattiveria, tanta. Questa valanga blu frana proprio sul punto più fragile del campione bionico, quello col fisico pensato da Michelangelo e progettato da Leonardo da Vinci. CR7 si accascia. Si vede subito che non è un contrasto come gli altri.

E’ innaturale vedere l’emblema della velocità, del dinamismo, immobile come un oggetto di arredamento. Non è un contrasto come gli altri e nessuno ci crede. Perché ne succedono a centinaia, in una stagione. A migliaia, nella carriera di un giocatore. A migliaia di migliaia, se sei il più forte e gli altri per fermarti possono solo provare a picchiarti. Migliaia di interventi duri, e Ronaldo continua a correre. Uno solo, il primo, nella partita più importante della vita e Ronaldo si affloscia come un cinquantenne al calcetto il giovedì sera.

Non serve portare il Portogallo dove non doveva essere. Non basta avere riscritto le leggi della forza di gravità con quel colpo di testa fuori da ogni logica contro il Galles. Puoi saltare più in alto di chiunque altro. E poi ti ritrovi zavorrato sull’erba, con una falena sul sopracciglio. Senza sapere nemmeno com’è successo. Nella partita che doveva consegnarti alla storia.

CR7 ci prova, non si arrende, zoppica come i vecchietti in fila per la pensione. Questo è ancora meno naturale. Tocca un pallone e appoggia il sinistro come i ragazzini scarsi che vanno in porta nelle partite di cortile per non fare danni in mezzo al campo. Gli fasciano la gamba sinistra che pare un affettato. Ci riprova. L’agonia dura poco più di venti minuti. Aveva preso a piangere come una fontana, prima di arrendersi. Si affloscia sul prato di Saint Denis come una statua abbattuta. Lo portano fuori in barella. Le mani sul viso. L’ultima immagine di CR7 nella finale degli Europei sono dei portantini che lo scortano negli spogliatoi. Dodici anni di propositi di rivincita cancellati in sei minuti. O almeno sembra.

C’è un momento in cui lo stadio si rende conto che il tempo continua anche se il più forte si ferma. Ma anche questo non è naturale. Perciò quello che succede è paradossale. In tribuna c’è Figo che fino al termine del primo tempo si regge il mento, sceso a livello seminterrato. Ci sono i giocatori in campo che non si capacitano loro pure. E per dieci minuti buoni è davvero come al calcetto quando qualcuno si fa male e si smette di fare sul serio per paura che succeda di nuovo.

Saint Denis è teatro di drammi che coinvolgono i nomi più attesi delle finali. Nel 1998 il Brasile perse 3-0 e l’altro Ronaldo, l’originale, il Fenomeno, in campo era un fantasma. Si seppe dopo che era stato vittima di convulsioni, quando lo si vide barcollare sulla scaletta dell’areo che riportava la Selecao a casa. Non è un prato che porta fortuna agli interpreti più pregiati del pallone. O almeno pare.

Entra Quaresma, che ha i capelli scolpiti ad alloro. Entra un decerebrato sul terreno di gioco a inizio secondo tempo. Invasione di campo a Parigi il giorno della finale. Surreale. Payet esce, frastornato più degli altri. Giochi un grande Europeo e mentre lasci il campo sai che verrai ricordato per essere stato quello che ha tolto dalla partita l’uomo che proprio non doveva lasciarla. Griezmann da due passi sbaglia un colpo di testa che in una finale normale avrebbe gonfiato la rete. Il Ct portoghese Santos viene pizzicato che si regge la testa sconsolato in panchina. Ma mancano ancora otto minuti alla fine ed è 0-0, tutto ancora aperto.

Ronaldo addirittura ritorna. A inizio supplementari. Zoppicando raggiunge la panchina. Deve, vuole esserci in un modo o nell’altro per l’epilogo. Trascina i compagni, li rispedisce in campo. Non si potrebbe fare, ma per lui si chiude un occhio. Guerrero nel secondo supplementare su punizione bacia la traversa dopo un fallo di mano commesso da un suo compagno di squadra. Pure l’arbitro Clattenburg è nel pallone.

E alla fine il destino trova comunque il modo di ribaltarsi. Perché è l’anno delle outsider. E’ l’Europeo dei tabù sfatati. Eder, la punta sgraziata, che con Ronaldo in campo non avrebbe mai giocato. La mette di destro al minuto 108. Ronaldo torna a piangere. Stavolta di gioia. E’ ancora sdraiato. Travolto dall’abbraccio dei compagni. Perché se avesse perso, ci saremmo domandati per sempre come sarebbe stata con CR7 in campo. Ma ha vinto e forse ci domanderemmo se avrebbe vinto lo stesso. Però il senso di giustizia per una nazione calcisticamente tartassata dal destino appiana ogni discorso. E porta CR7 un gradino più in alto, sopra l’eterno rivale Messi. Il portoghese ha vinto con una nazionale che non aveva mai vinto. Giocando anche fuori dal campo.

Era l’eroe solitario contro i padroni di casa. E’ stato il gruppo senza la sua stella a ribaltare la Francia e il ricordo di Lisbona 2004. Potenze, conseguenze di un infortunio che ha reso la finale prima paradossale. E poi esemplare nel suo epilogo. E’ lo spirito di squadra che a Euro 2016 ha vinto sul talento. Sempre. Anche quello inarrivabile di Cristiano Ronaldo.