Addio a Niki Lauda, il campione tornato dagli inferi

Addio a Niki Lauda, una delle icone più luminose della F1, campione che nel 1976 tornò dal rogo del Nurburgring per diventare leggenda

Niki Lauda era un altro di quei personaggi leggendari che sembravano esserci da sempre, forse perché avevano dimostrato con il loro coraggio e la loro forza di volontà che non esiste mai un buon motivo per andarsene prima del tempo. Il mondo oggi piange l’uomo, il campione, il pilota dei titoli mondiali e delle 25 vittorie in carriera, che a confronto di quelle di Hamilton sembrano poche, ma erano tante in un’epoca in cui ogni anno all’inizio della stagione c’era qualcuno che sapeva che non sarebbe stato lì a raccontarne la fine. Subito dopo i pionieri, e subito prima di Senna e Schumacher, l’anello di congiunzione tra il bianco e nero e i colori e il mondo sempre connesso.

Nurburgring 1976

Era il primo agosto 1976 ed era un anello pure quello del Nurburgring. Di incidenti, nella storia della F1, ce ne sono migliaia. Alcuni solo spettacolari. Spesso drammatici. Molti fatali. La lista delle leggende che hanno perso la vita in pista è lunga. Jim Clark. Gilles Villeneuve. Ayrton Senna. Ma l’incidente più celebre della storia è quello capitato a un sopravvissuto, proprio Niki Lauda. Si sono scritti libri. Documentari. Perfino un film. Quel Rush di Ron Howard, uscito nel 2013, che ha suscitato consensi ma anche polemiche da parte di chi il circus, in quell’epoca fatta di metallo rovente e donne, l’ha vissuto davvero. Niki Lauda quel giorno in Germania si contendeva il titolo mondiale con James Hunt. Lui su Ferrari. L’inglese su McLaren. Il Nurburgring di oggi è molto diverso da quello di allora. All’epoca era proprio un anello infernale di oltre 30 km. Ogni giro sembrava una tappa speciale di rally più che di F1. Bizzarrie di un’epoca romantica nella quale la sicurezza in pista era una casualità gradita, non una scelta su cui investire risorse economiche e mezzi. Nell’automobilismo si perdeva la vita facilmente, e altrettanto facilmente si accettavano le conseguenze di uno sport estremo.

Aveva appena piovuto e aveva appena smesso. Pista bagnata, però. Tutti scelgono gomme da bagnato. Ma basta un giro, il primo, per capire che bisogna passare alle slick. Ne basta un altro, il secondo, per cambiare la storia. Di Lauda. Della F1. Del mondiale 1976. Il pilota austriaco si trova al Bergwerk, una subdola curva cordolata. Proprio nel punto più lontano dai box. Gomme fredde e appena tocchi il cordolo è un attimo perdere aderenza. Lauda scarta a destra, si infrange sul guard-rail e rimbalza in mezzo alla pista come una pallina da ping pong. Da dietro arriva Edwards, che riesce a evitarlo. Arrivano Ertl e Lunger che lo centrano in pieno. Sembrano le macchine a scontro del luna park. Quella di Lauda prende fuoco.

Solo che qui si corre a 300 all’ora e nell’impatto Lauda perde il casco e sviene. Davanti Ertl e Lunger si fermano. Sopraggiunge Arturo Merzario. Non doveva nemmeno essere su quella macchina. Guidava una March e in Germania aveva preso il posto di Jacky Ickx alla Wolf-Williams. Sopraggiunge, Merzario, e decide di fermarsi. Il perché abbia deciso di farlo resta un mistero. Anche nella sua testa. ‘C’è stato qualcosa che mi ha imposto di fermarmi, scendere dalla macchina e correre verso Niki’. Perché? Non lo sa nemmeno lui. Di incidenti spaventosi ne ha già incontrati tanti, e ha sempre tirato dritto. Un pilota guarda sempre avanti, verso la pista, non lo specchietto retrovisore. Ma stavolta vince l’istinto di sopravvivenza sulla velocità. Non è cosa scontata, in un’epoca nella quale il concetto di Safety Car sarebbe affrontato con sospetto, se non osteggiato apertamente.

Merzario non è solo un pilota veloce. Non è solo un ragazzo col piede pesante. E’ uno che undici anni prima, per guadagnarsi una licenza militare, aveva deciso di sottoporsi a un corso di primo soccorso medico. Un pilota che non doveva essere lì. L’unico, nel circus, in grado di fare un massaggio cardiaco. E la respirazione artificiale. Senza di lui Lauda al Nurburgring sarebbe morto. Invece si ferma e lo soccorre. Più precisamente, lo mantiene in vita.

La storia che diventa leggenda

Poi Lauda era un personaggio particolare. Metodico come i tedeschi, freddo calcolatore come gli austriaci, ma con un pizzico di italianità innescata dal frequentare Maranello. Dopo quell’incidente, ha i polmoni intasati di gas di scarico. Secondo i medici che lo soccorrono è, letteralmente, bruciato dentro. Non possono fare niente per aiutarlo. Sopravvivere è una faccenda di volontà. E nessuno ne ha più di uno che aveva davanti agli occhi un agiato futuro da uomo d’affari grazie alla sua famiglia, ma decide di entrare dalla porta di servizio nel mondo della velocità. Infatti, una volta recuperata conoscenza, non la perde più. E’ a brandelli, ma vuole tornare in pista. Ci torna a Monza. Esattamente 43 giorni dopo lo schianto. Quasi non riesce a infilarsi il casco. Quando se lo leva, c’è attaccato sopra mezzo cuoio capelluto.

Arriva all’ultima gara a giocarsi il titolo con Hunt. E’ il giorno del famoso nubifragio al Fuji. Lauda ha recuperato conoscenza e ha guadagnato in coscienza. La gara prende il via solo all’ultimo, dopo una riunione nella quale i piloti decidono di correre. Lauda è contrario. Ma si adegua. E’ ancora il secondo giro a decidere la sorte di quella stagione. In pista non si vede niente. Lauda davanti agli occhi ha ancora l’incidente. Basta un tocco di freno in ritardo. Una traiettoria spostata di pochi centimetri. Un pilota che ha più desiderio di batterti e meno paura di morire. Riporta la sua Ferrari ai box. Mauro Forghieri, progettista della Ferrari, capisce. E gli chiede: ‘Vuoi che diciamo alla stampa che hai avuto un problema tecnico?’. Lauda risponde: ‘No. Ditegli la verità. Che in queste condizioni non si poteva correre’.

Il titolo andrà a James Hunt. Lauda ne vincerà altri due. Uno con la Ferrari l’anno successivo. Un altro con la McLaren nel 1984. E poi un futuro come uomo d’affari di successo, una compagnia aerea creata dal nulla e poi una seconda. Infine consulente Mercedes. A dirimere la bisboccia fra Hamilton e Rosberg nel 2016 ci pensò lui. Tornare indietro dalla morte ti lascia addosso un sacco di cicatrici, ma anche una certa dose di ironia. Forse è per quello che non si capiva mai quando era serio e quando stava canzonando l’intero mondo della F1 o un intervistatore particolarmente insistente. Storie di incidenti fatali, oppure no, di episodi decisivi nella storia oppure secondari come quello di Schumacher che c’è ancora dopo essere sopravvissuto a due decenni di duelli in pista ma non a una caduta sugli sci. A 43 anni dal Nurburgring e a 25 da Imola, il carrello dei ricordi diventa un po’ più pieno e il circus della F1 diventa un po’ più vuoto.