I Raptors, la squadra del destino che batte la dinastia ma non sopravvive a sé stessa

I Raptors, gli uomini del Nord, sono la squadra del destino, capaci di interrompere la dinastia dei Warriors e di portare per la prima volta nella storia della Nba un titolo a una franchigia canadese

E’ vero che il Nord va di moda in questa stagione, vedi Trono di Spade e il Grande Inverno e tutto il resto, ma nessuno si aspettava veramente che i Toronto Raptors potessero battere i Golden State Warriors, interromperne la dinastia ed entrare direttamente nella leggenda Nba senza passare per gli stati intermedi. Pure se non sapremo mai come sarebbe stata la serie con Durant, e nemmeno come sarebbe stato il finale di gara 6 con Klay Thompson, è un merito anche riuscire ad approfittare dei problemi degli avversari senza perdere la testa. Soprattutto se sul palcoscenico più importante non ci sei mai stato. Perciò quella terra smisurata e fredda nel quale si impazzisce per l’hockey, comunque poco avvezza ai titoli, è adesso in cima al mondo nella palla a spicchi. Come si fa a non essere romantici con la pallacanestro?

 

La squadra del destino era un’etichetta appiccicata sopra a una finalista di una Eastern Conference che si voleva senza sapore dopo la trasmigrazione di LeBron James sull’altra costa, ovvero l’uomo che di Toronto aveva sempre puntualmente interrotto i sogni più arditi. Poi, quel canestro di Kawhi Leonard che ballonzola mille volte sul ferro per eliminare i Sixers e da quel momento la storia è cambiata.

E’ chiaro che se raccontiamo di una franchigia canadese quasi sempre snobbata da addetti ai lavoratori e free agent pregiati, che arrivò nel 1995 nella Lega per viverci prevalentemente da invitata non sempre gradita e solo recentemente diventata realtà competitiva, è da Leonard che bisogna partire e dalla scommessa azzardata e vincente del gm Masai Ujiri, che ha rischiato di averlo in cambio di niente e in realtà per averlo un solo anno in cambio si è messo un anello al dito. Dal giocatore più enigmatico della Nba, e attualmente il più forte, che vive di forti emozioni senza trasmetterle all’esterno, l’uomo senza sorriso e che ha spalancato la bocca in un’espressione di incredulità più che di felicità solo dopo quel tiro contro i Sixers e non se ne ricordano altre. Arrivato in Canada con l’idea di starci meno possibile, e infatti se ne va ai Clippers nella terra in cui è nato, in uno scambio che a San Antonio ancora rimpiangono e rimpiangeranno per anni. Aveva dominato le Finals del 2014 costringendo LBJ a tornarsene ai Cavs, ha dominato quelle del 2019 costringendo i Warriors a rendere meno dominante la loro dinastia, che ora conta cinque finali consecutive, tre titoli ma anche due sconfitte. E diventa Mvp delle Finals, per la prima volta nella storia, giocando prima nella Western e poi nella Eastern Conference.

Poi ci sarebbe la storia di Nick Nurse, il coach venuto dal nulla, una storia anglosassone alle spalle che ricorda le atmosfere di Semi Pro (il film capolavoro con Will Ferrell che racconta le avventure di una improbabile franchigia Aba degli anni settanta), tanto basket quasi amatoriale allenato e tante idee portate al piano di sopra, vedi la box and one che ha sorpreso Curry e Golden State, compreso Steve Kerr. L’uomo che costeggia da lontano la Nba e al primo anno da head coach si mette l’anello al dito. Se non è destino, è comunque la storia più belli degli ultimi anni tra tutti gli sport professionistici americani. Con un futuro prossimo ai mondiali come allenatore del Canada.

Ci sarebbe da dire anche dei suoi assistenti, con Sergio Scariolo in primis che è il motivo per cui uno come Serge Ibaka è tornato a fare la differenza nei momenti che contano. Lo ha allenato per anni nella Spagna e se ci vedete qualcosa in comune con Marc Gasol, altro lungo decisivo e adesso vincente dopo anni di delusioni ai Grizzlies, avete ragione. Ci sarebbe la parabola di Pascal Siakam, l’ala camerunese che trasforma direttamente il territorio africano nel prossimo grande mercato Nba venticinque anni dopo Hakeem Olajuwon. Oppure Fred VanVleet, l’uomo di gomma che non ha paura di nessuno e protagonista del quarto periodo in gara 6, e poi ancora Green che è probabilmente il più letale specialista delle triple sugli scarichi della Nba, con Lowry capace di resettarsi al momento giusto per scrollarsi di dosso le voci che lo vogliono scarsamente incisivo ai playoff e in definitiva una rotazione ridotta a sette uomini, otto quando va bene, capace di scardinare il sistema cestistico americano.

In molti trovano analogie con i Mavs del 2011 che stopparono il primo tentativo di titolo degli Heat di Wade e LBJ, ma in realtà nel primo titolo di una franchigia canadese nella storia della Nba di remake non ce ne sono e nemmeno di analogie. Una squadra cresciuta a dismisura nei playoff, capace di rimontare da 0-2 contro i Bucks e spazzarli via e poi di mandare in crisi una delle squadre più belle che si siano mai viste su un parquet da quando Naismith inventò il gioco, vincendo tre volte alla Oracle Arena nelle Finals in cui il fattore campo è stato rispettato solo una volta in sei partite. Come si fa a non essere romantici con la pallacanestro?

Soprattutto perché i Raptors non hanno nemmeno fatto in tempo ad annusare l’ipotesi di aprire un nuovo ciclo vincente canadese che la free agency ne ha cancellato per sempre la natura, amplificandone la leggenda. Leonard che se ne va, dopo avere sfiorato la permanenza e convinto Paul George ad approdare a Toronto e invece portandolo con sé ai Clippers, trasformerà i campioni in un’altra squadra, una creatura diversa, difficilmente vincente nella quale anche Green sarà solo una figurina vincente del passato. Significa che i Raptors avranno un posto privilegiato nella storia, come tutte quelle squadre capaci di vincere ma non di ripetersi, una stella che brilla per una sola stagione e contemporaneamente si brucia per rimanere solo nei ricordi di chi l’ha vista salire più in alto di tutti. La storia verrà celebrata, raccontata, forse Hollywood un giorno ci farà un film, suggestiva e sfuggente come tutto ciò che non si può replicare.