Marco Solfrini e il Silenzio. Quello sgomento di oggi e quello del 24 marzo 1985

Oggi è venuto a mancare Marco Solfrini, a soli 60 anni. Ha accompagnato la mia adolescenza vincendo tutto col Bancoroma. Il mio ricordo commosso di una persona che non dimenticherò mai.

Alla memoria di Marco Solfrini mi legherà sempre il silenzio.

Quello (sgomento) seguito alla telefonata di oggi e quello (scosso) che Marco generò 33 anni fa oggi, il 24 marzo 1985, al Palalido di Milano. Il Bancoroma doveva rimontare dieci punti alla Simac di Mike D’Antoni e Joe Barry Carroll se voleva chiudere in testa la regular season. Io ero incollato alla radio, come sempre: erano gli anni in cui un break positivo o negativo dipendeva dalla posizione assunta sul divano o da un bisogno fisiologico espletato nel momento sbagliato. Scappammo sul +17 all’inizio del secondo tempo ma Milano tornò sul -7 al 30’ (mi avevano chiamato per cena…).

Palalido incandescente, voce del radiocronista inutile perché ricoperta dai fischi. Non segniamo da una vita. Poi, assordante, quel silenzio. Lo stesso di oggi, 33 anni dopo. Rotto solo dalla voce dello speaker milanese, “Solfrini”. Sussurrato. Era successo che Marco aveva inchiodato nel canestro dell’Olimpia una schiacciata folle, mai vista prima e mai vista dopo. Da quel momento il Bancoroma tornò padrone di quella partita, che poi vinse 90-113, ma questo non conta. Conta quel silenzio. E poi, “…Solfrini”.

Un ricordo indelebile, questo, per me e per gli amici che in quegli anni insieme a me preferivano il Palaeur all’Olimpico, Larry Wright a Paulo Roberto Falcao, il blu-arancio al giallorosso. Ecco perché oggi mi sono ritrovato in lacrime in un ristorante di Cesenatico. Come se a colpirmi fosse stato un lutto familiare, quello di un caro amico, di una “presenza” della mia vita. E invece con Marco, nella mia seconda vita, ovvero quella da giornalista, ho avuto modo di parlare appena 4-5 volte, sempre raccogliendo l’idea di un uomo umile e intelligente, disponibile ed educato.

Uno abituato dalla nascita a volare 20 centimetri sopra agli altri, antidoto evidentemente ideale rispetto alle umane bassezze. Un mio collega mi ha scritto, poi: “Marco era uno dei nostri eroi. Senza macchia e senza paura. Ecco perché hai pianto. Ti capisco”. Verissimo.

Marco Solfrini è stato l’eroe di un quindicenne che in stanza aveva il poster del numero 13 e non quello di Larry Wright, per dirne uno. Le sue braccia infinite, l’elevazione prepotente e rara per le nostre latitudini al punto che qualcuno l’aveva improvvidamente accostato a Julius Erving. Ma noi Doctor J lo leggevamo su Superbasket e tre volte l’anno ce lo facevamo raccontare da Dan Peterson, mentre per godermi i numeri di Marco a me bastava prendere la Metro B e dopo tre fermate scendere a Eur Marconi.

Era dannatamente semplice, vivere nel 1983. Non rispondevamo alle notifiche, rispondevamo alle emozioni. Soprattutto a quelle generate da una squadra che per passare dallo status di illustre sconosciuta a quella di Campione Intercontinentale aveva impiegato 18 mesi. Era semplice, vivere nel 1983. Bisogni semplici, risposte semplici. A 13 come a 50 anni. Hai fame? Apriti una Girella Motta. Hai sete? Comprati un Drink Pack al chinotto. Ti piace una ragazza? Scrivile una lettera e fagliela recapitare dal tuo migliore amico. Ecco, il Bancoroma rispondeva perfettamente a questa idea/necessità di semplificazione.

Wright. Gilardi. Solfrini. Polesello. Kea.
Devi spezzare una difesa con una penetrazione? Larry.
Non riesci ad aprire la scatola, urge un tiro da fuori? C’è Enrico.
Una schiacciata, un salto che scuota il pubblico? Nessuno meglio di Marco.
Un gancio nel traffico, una giocata di esperienza? Fulvio, Fulvio, c’è Fulvio.
Un blocco, un rimbalzone d’attacco, energia? Tranquilli, Clarence.

Tornavi a casa sereno, anche le (poche) volte che perdevi. Perché sentivi che con quei cinque supereroi in campo non avevi bisogno di altro. Pallacanestro semplificata, adolescenza semplificata. Niente centri playmaker occulti, niente guardie rimbalziste. Altri tempi, non mi interessa se migliori o peggiori degli attuali. Tanto meno oggi.

Sta di fatto che l’onnipotenza atletica di Marco ha accompagnato e rasserenato la mia adolescenza. Crescendo, ho imparato ad apprezzarlo come giocatore funzionale alla squadra e poi come uomo, che anche a 60 anni si divertiva a schiacciare nella CSI bresciana con l’umiltà di un esordiente. Mai una parola o un atteggiamento fuori posto, lo conferma chi ha avuto l’onore di giocarci contro fino alla settimana scorsa.

Ecco perché oggi ho pianto Marco Solfrini come un mio familiare. Davanti al mare di Cesenatico.
Poi è piombato il silenzio, a 33 anni esatti da quello del PalaLido. La voce dello speaker… “Solfrini”
Ciao Marco. Non ti dimenticherò mai, supereroe dalle braccia infinite con la maglia numero 13.

Archivio privato Giancarlo Migliola