LeBron James vs Michael Jordan, analogie e differenze tra i più grandi

Michael Jordan vs LeBron James, un paragone impossibile per stabilire chi sia il più forte di tutti i tempi, tante analogie in campo ma anche una fondamentale differenza fuori dal parquet

LeBron James o Michael Jordan? Il dibattito ciclicamente torna di moda, parte dagli Stati Uniti dove amano catalogare statisticamente anche ciò che è incatalogabile, ovvero la grandezza di giocatori di epoche differente, e dilaga a macchia d’olio nel resto del globo. Gli ultimi playoff giocati dal numero 23 contemporaneo, per cifre e impatto, sono forse stati la prestazione individuale più impressionante del basket moderno. E per questo il paragone con il 23 del passato, all’unanimità considerato il più grande di tutti i tempi, torna a prendere quota. E visto che la stagione è finita come al solito, con i Cavs del più forte sconfitti da un collettivo più forte anche di lui, e che il futuro di LBJ è targato Los Angeles Lakers ovvero un paragone costante con le leggende del passato gialloviola, vale la pena approfondire un dibattito che appassiona e divide gli appassionati di basket americano e di leggende sportive.

Il paragone impossibile

Per quanto intrigante, stabilire chi tra due grandi sia il più grande non è possibile se si vuole fare un discorso oggettivo e non legato alle preferenze individuali di chi li ha visti giocare entrambi. Troppi elementi soggettivi e, soprattutto, troppe differenze tra la Nba degli anni Ottanta e Novanta e quella di oggi. Michael Jordan è stato l’attaccante più completo e letale della storia in una lega nella quale, dai Pistons versione Bad Boys, si faticava ad arrivare a cento punti a partita. La fisicità del gioco e la presenza di lunghi dominanti, un regolamento che permetteva ai difensori di avere un vantaggio evidente nei confronti degli attaccanti in termini di aggressività con la possibilità di metterti le mani addosso in qualsiasi momento, divennero talmente predominanti che a metà degli anni novanta la Nba per risolvere il problema dei bassi punteggi avvicinò l’arco dei tre punti a 6.75 metri. La Nba di oggi è cambiata per filosofia e mediaticità e protegge un basket fatto di tanti possessi e alti punteggi, gli attaccanti sono privilegiati rispetto ai difensori (vedi anche la tanto discussa regola sul primo passo nel terzo tempo che in questa stagione è stata adottata anche dalla Fiba) e ci si stupisce quando una partita finisce sotto i 100 punti. Se è realistico credere che Michael Jordan nel basket di oggi avrebbe tranquillamente potuto giocare una stagione da 40 punti di media, è altrettanto vero che LeBron James, avanti fisicamente una decina d’anni rispetto al prototipo del giocatore Nba già nel 2003, se fosse arrivato sulla terra vent’anni prima avrebbe potuto avere un impatto in grado di cambiare il gioco e le cui conseguenze non possono essere ipotizzate. Una sorta di Magic Johnson al quadrato, il fisico di un’ala grande e la capacità di giocare in quattro ruoli diversi. Sarebbe stato un rebus insolubile anche per i difensori dell’epoca. Da questo punto di vista è davvero impossibile fare una classifica di grandezza.

Le analogie

Tecnicamente, è dove i due si somigliano di più. Quando entrarono nella Nba, Michael Jordan e LeBron James erano atleti straordinari ma non ancora attaccanti completi. Jordan già nei primi anni aveva un tiro dalla media più affidabile di quello di LBJ, ma la sua maturazione è arrivata soltanto in contemporanea con l’avvento di Phil Jackson e Tex Winter, ovvero l’attacco triangolo che gli fece entrare in testa le meravigliose potenzialità di una sua presenza costante in post basso. Da quel punto derivano il perfezionamento della ricezione spalle a canestro e del jumper in fade away. Jordan, da His Airness, divenne un tiratore micidiale dalla media distanza che poteva fare male dall’arco in un’epoca nella quale le triple erano ancora una scelta morigerata e non un abuso sfrenato. LeBron James con quel fisico il post lo ha sempre frequentato ma fronte a canestro il suo tiro non era affidabile nei primi anni, lo ha reso robusto con il lavoro in palestra esattamente come Jordan e lo stesso vale per le sue percentuali dall’arco. Entrambi artisti nel finire dentro il traffico, MJ per fantasia e acrobazia e LBJ per potenza pura, nel tempo hanno affinato il proprio potenziale offensivo e sono cresciuti sul piano tecnico e mentale. Entrambi hanno esplorato nuovi modi di dominare una partita, Jordan anche con la difesa e James con il passaggio smarcante, entrambi a 33 anni nonostante un chilometraggio enorme nella Nba avevano ancora ampi margini di miglioramento senza una conseguente usura fisica. Il che rappresenta l’aspetto più impressionante dell’intero pacchetto.

I titoli vinti (o persi)

Una corrente di pensiero comune è stabilire la classifica di grandezza sulla base dei titoli vinte in relazione alle finali giocate. Negli Stati Uniti in tanti la pensano così, anche nomi prestigiosi come Kobe Bryant. Da questo punto di vista Michael Jordan è praticamente imbattibile nell’epoca moderna, l’unico a vincere tutte le finale giocate, sei su sei. Solo Bill Russell ha un ruolino di marcia simile, ma parliamo di un ruolo diverso e di un basket diverso negli anni Sessanta. Hanno perso almeno una finale Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar, Larry Bird, Tim Duncan, Kobe Bryant e Shaquille O’Neal, non hanno mai vinto un titolo Charles Barkley, Patrick Ewing, Karl Malone, John Stockton. LeBron James, sei finali perse su nove giocate, somiglia nello score a Wilt Chamberlain e Jerry West. Non soltanto per le tante finali perse, ma perché tutti e tre si sono trovati continuamente di fronte una squadra avversaria che come collettivo superava anche il loro talento, che pure era fuori dal comune. Chamberlain e West ebbero di fronte i meravigliosi Celtics di Red Auerbach, LeBron James ha giocato quattro finali consecutive contro i Golden State Warriors di Steve Kerr, che hanno riscritto il concetto di pallacanestro moderna nel 2015 e 2016 e insegnato al mondo come si fa a fare convivere tre superstar come Curry, Durant e Thompson e contemporaneamente vincere due titoli. Jordan da questo punto di vista è diverso, ha avuto cinque avversarie diverse nelle sei finali giocate e solo contro i Jazz, nel 1997 e 1998, è nata una vera rivalità sportiva. MJ con i Bulls giocava in una Eastern Conference che all’epoca era molto più competitiva della Western Conference, LBJ vive(va) nella situazione diametralmente opposta. Ma non puoi considerare il numero di anelli vinti come termometro della grandezza senza considerare tutto quello che succede prima, tutto ciò che serve per andare in finale. LeBron James ne ha giocate otto consecutive con due maglie diverse, quattro con gli Heat e quattro con i Cavs, impresa mai riuscita a nessuno nel basket moderno. Jordan giocava quasi indiscutibilmente nella squadra più forte della Nba, James fino a giugno ha giocato sicuramente in una squadra che forse non è nemmeno nelle prime cinque. I Bulls del 1993-94, privi del Jordan che si diede improvvisamente al baseball, andarono a una partita dal tornare in finale di Conference anche senza di lui, sconfitti 4-3 dai Knicks che poi persero in volata le Finals contro i Rockets. I Cavs senza LBJ, non solo quest’anno ma forse anche nelle precedenti tre stagioni, probabilmente non erano nemmeno da playoff. La grandezza non è solo vincere un titolo, ma anche trascinare una squadra piena di limiti a giocarselo. Il che però ci trasporta al capitolo successivo, forse il più determinante.

Le differenze

Dove sostanzialmente sono diversi è paradossalmente nell’area che non riguarda il parquet, ovvero nella gestione dei rapporti con la proprietà e il management. Il primo Michael Jordan era un accentratore di gioco che faticava a dividere responsabilità con compagni che erano troppo lontani dal suo livello. Fu Phil Jackson a convincerlo che poteva vincere solo rinunciando a qualcosa di personale e fidarsi del sistema e di chi indossava la sua stessa maglia. Jerry Krause, il gm di quei Bulls, ebbe per tutta la carriera un rapporto conflittuale con MJ, dal quale veniva spesso brutalmente preso in giro. Ma quella era la conseguenza della bulimica fame di sfida e competitività che ha reso Michael Jordan ciò che è stato, ovvero un ossessivo ricercatore della perfezione che si caricava emotivamente facendo scintille con chi lo circondava. Jordan però non ha mai interferito attivamente con le dinamiche di costruzione della squadra, con la scelta di giocatori e allenatori, in una sfera di operatività che riconosceva autonoma e affidata esclusivamente a Krause. In altre parole era l’anello più grande, la punta più brillante di una collettività che girava intorno a lui ma che non era lui a fare girare. Scottie Pippen, suo perfetto secondo violino, per anni fu scontento del proprio contratto ai Bulls ma non ha mai pensato di andarsene finché c’era MJ. Anzi, fu proprio Krause a farsi venire in testa il tarlo di dimostrare che poteva vincere anche senza il numero 23 e fu questo pensiero a indurlo al secondo ritiro nel 1998, quando scoprì che il gm non voleva concedere a quel nucleo e a Phil Jackson la possibilità di un ultimo giro in una stagione resa più corta dal lockout. Al contrario LeBron James, soprattutto dal suo ritorno a Cleveland, ha avuto un ruolo e una responsabilità diretta su ciò che i Cavs sono stati in campo perché ha messo bocca su tutto ciò che è successo nella costruzione della squadra. Ha fatto allontanare David Blatt dalla panchina e scelto Tyronn Lue che è obiettivamente un coach mediocre. Ha smantellato il gruppo che ha vinto il titolo nel 2016, litigato con il proprietario Dan Gilbert, richiesto la rivoluzione sul mercato a febbraio che ha reso migliori i Cavs nella seconda parte di stagione ma non li ha fatti diventare più competitivi. In altre parole è lui a decidere dove va la squadra, è lui stesso un pianeta a sé stante intorno al quale si muovono i satelliti. E’ il suo limite più grande e la conseguenza è che un talento come Kyrie Irving, nonostante il titolo vinto insieme, l’anno dopo ha preferito andarsene piuttosto che continuare a vivere nel cono d’ombra generato da LBJ. Proprio in una fase in cui Durant si aggiungeva a Curry e Chris Paul a James Harden. La Nba di oggi è una cooperativa di star che uniscono le forze mentre tutti sembrano scappare da LeBron James, tanto che la conseguenza è che se ne è andato di nuovo, come fece nel 2010 quando ironicamente fu il primo a esplorare la tendenza che adesso va di moda, mettersi insieme a Dwyane Wade e Chris Bosh per vincere il primo titolo in carriera. Nella propria evoluzione sportiva, Jordan ha imparato ad avere fiducia nei compagni e nella dirigenza senza interferire in maniera scomposta nel lavoro di chi stava sopra di lui. Questo passo, che ancora manca a LeBron James e che bisognerà scoprire se può essere percorso, è ciò che al momento lo divide da MJ. Il numero 23 contemporaneo è tanto grande nel portare una squadra oltre i propri limiti quanto responsabile che la propria squadra abbia limiti evidenti. La scelta di andare ai Lakers, la terza maglia in carriera, è un’altra differenza con Michael Jordan che ai Bulls arrivò nel 1984 senza mai lasciarli. A Los Angeles troverà Magic Johnson nei panni di presidente, una figura carismatica che finora in carriera gli è mancata. Se MJ è stato forgiato da Phil Jackson, forse il più grande coach della storia Nba, LBJ non è mai stato allenato da una leggenda della panchina e nei limiti descritti nelle righe precedenti la causa potrebbe essere proprio il fatto di non avere mai avuto dietro un uomo altrettanto credibile e dalla forte personalità cui affidarsi a occhi chiusi. La carriera di Magic da dirigente è ancora lontana dall’essere un successo indiscutibile, ma è uno che sa come si vince e come si fa a fidarsi dei compagni. Potrebbe essere lui a scolpire l’ultimo tassello per rendere il paragone con Michael Jordan ancora più credibile.