La guerra tra Virtus e Fortitudo Bologna del 1998, parte I – La rissa in Eurolega

Il 25 marzo 1998 tra Virtus e Fortitudo la più incredibile rissa del basket italiano moderno. Il racconto di una stagione irripetibile ripercorsa in due tappe

Bologna è stata sempre la città del basket, è noto. Ma ci fu un decennio, o meglio una seconda parte di decennio, nel quale diventò compiutamente, meritatamente, anche crudelmente, Basket City. E parliamo di un lustro, ma più correttamente di un triennio, che va dal 1997 al 1999. In mezzo a questo epicentro ci furono due sfide in Eurolega e una finale scudetto. Quella conclusa con il gioco da quattro punti di Danilovic, che sarà fonte di un altro episodio. Qui stiamo sul primo, ovvero sulla battaglia al Palamalaguti del 25 marzo 1998.

La rivalità

Di per sé, e basta andare da quella fonte infinita di conoscenza del basket italiano che è Dan Peterson, che la Virtus la ha allenata, la rivalità tra due squadre della stessa città è scontata, lapalissiana, esiste prima ancora dell’esistenza e del concetto stesso di derby. In certi contesti, vedi per esempio Torino con la Juve da una parte il Toro dall’altra, una delle fazioni concentra a sé vittorie, poteri e tutto ciò che ne consegue in termini di astio. L’altra parte vive di soddisfazioni sporadiche, nell’incessante pulsare del desiderio di battere i più forti, nella quasi costante certezza che sono due partite nell’anno a fare la differenza e non la classifica finale. Più o meno a Bologna nel basket era andata sempre così, fino all’avvento di Giorgio Seragnoli che si mise in testa di rendere la Fortitudo una potenza e non solo una presenza. Quella, ricordiamo, era l’epoca in cui certe operazioni si facevano con regolarità e anche facilità, l’esempio parallelo supremo è quello della Lazio di Cragnotti che con la Fortitudo condivise anche l’anno di un sospirato scudetto, il 2000. La Virtus, prima con Cazzola e poi con Marco Madrigali, aveva già nella prima parte del decennio imposto il proprio dominio sulla penisola, tre scudetti consecutivi dal 1993 al 1995 su una dinastia fondata da una testa illuminata come quella di Alberto Bucci che nel 1997 fece spazio al ritorno di Ettore Messina e soprattutto di Predrag Danilovic, tornato all’ovile dopo un paio di anni promettenti ma mal sopportati ai Miami Heat. L’obiettivo era di togliere ossigeno alla Benetton Treviso, scudettata nel 1997 con Mike D’Antoni in panchina, ma soprattutto di rimettere nei ranghi la Fortitudo, all’epoca Teamsystem, che ai nastri di partenza del 1997-98 aveva già collezionato due finali consecutive, perse contro Milano e contro la Benetton. Perché l’anomalia nacque proprio in quel punto. Bologna scoprì che una delle due parti indossava le vesti di corazzata, non di semplice outsider, e l’altra mise in campo ogni arma in suo possesso per impedirle di raggiungere il trono. A livello cittadino, un sisma del genere nello sport si è visto raramente. Nel calcio a Milano c’è stata una certa abitudine, ma da nessuna parte nel paese si poteva viverla come a Bologna. E infatti la rivalità si trasformò velocemente in qualcos’altro.

La guerra

Guerra sportiva, si intende, che è un termine che in questo momento usiamo per tutt’altro. Ma è l’unico che rende l’idea di quei giorni. La storia montava come una panna golosa, perché in quella stagione era chiaro che Virtus e Fortitudo fossero le due squadre nettamente più forti del campionato, ma andavano in parallelo almeno fino al momento dei derby. Nel ritorno in regular season, vinto 71-69 dalla Teamsystem il 15 marzo 1998 in un clima che definire di tensione è quasi ridicolo. Metteteci anche che l’andata fu vinta 78-77 dalla Virtus, ognuna vincente in casa propria, e avrete l’antefatto. Che andasse a finire con una finale a scudetto a risolvere tutto sembrava esito scontato, ma capitò che le due squadre si trovassero ai quarti di Eurolega, un’Eurolega molto diversa da quella che conosciamo oggi. C’erano quattro gironi da sei squadre ciascuno (anzi tre da sei e uno da cinque, quello della Fortitudo) e poi, prima delle Final Four, ottavi e quarti al meglio delle tre gare. C’era anche la Benetton, marginale in questa storia e capace di arrivare in semifinale e poi arrendersi 69-66 contro l’Aek Atene. Ora, piccola incidentale. Non erano solo due squadre della stessa città. C’era racchiuso il meglio del basket continentale. Diciamola come Federico Buffa. Da una parte la Virtus, allenata da Messina, con Danilovic punta di diamante, Antoine Rigaudeau a portare palla in quello che era a tutti gli effetti lo Zidane del basket, due colonne azzurre come Abbio e Frosini, l’antica colonna Gus Binelli, il saltatore senza senso Hugo Sconochini che già aveva sollazzato e abbandonato la platea romana con schiacciate indelebili, e Zoran Savic, uno dei lunghi più insopportabili e per questo magnetici e magnifici del basket del secolo scorso. Ah, ci sarebbe stato anche quell’altro in area, Radoslav Makris, che magari vi ricordate meglio come Rascio Nesterovic. Di qua: Valerio Bianchini in panchina, il Myers più atleticamente onnipotente della carriera ma anche caratterialmente ingestibile, con Fucka, Chiacig e Galanda a supporto. Se questo quartetto vi rimanda a Parigi 1999, non vi sbagliate e peraltro si veniva dalla finale dell’Europeo persa dall’Italia nel 1997 contro i soliti slavi. Non che tra gli esterni andasse peggio, Moretti e Attruia facevano un supporting cast nobile, ma David Rivers aveva appena vinto da protagonista l’Eurolega giocata al Palaeur con l’Olympiacos e poi c’era Dominique Wilkins. Avere in Italia uno che meno di dieci anni prima aveva fatto a gara con Larry Bird a chi segnava di più al Garden era impensabile all’epoca. Noi, quasi casualmente, fummo testimoni della prima amichevole giocata dalla Fortitudo in estate. A Bormio. Contro il Maccabi Tel Aviv. Due cartoline. La prima, un servizio d’ordine senza senso per un palazzetto di legno in montagna improvvisamente preso d’assalto da centinaia di esagitati in maglia gialla. Da dove venivano? La seconda, quello non era Dominique Wilkins. Era la sua custodia senza lo strumento dentro. La seconda parte dirà il perché. Perciò avevate uno contro l’altro i migliori generali, i migliori genieri, i migliori guerriglieri e i migliori soldati semplici. Non casualmente Myers, ricordando quei tempi, sintetizzò così: la Virtus era l’impero romano, la Fortitudo era Cartagine.

La rissa

Nessuno a Bologna si scorda quei giorni. Se pensate che è pesante stare dentro casa a condividere la quarantena con parenti, consorti, pargoli ed eredi più o meno legittimi, i bolognesi vi diranno che sono pinzillacchere rispetto a quello che si vide allora tra marzo e maggio. Fratelli separati sotto lo stesso tetto, mariti che si rifiutavano di invitare a pranzo la domenica i suoceri, amicizie di sangue interrotte e non sempre ripristinate solo per via di quello che diceva la tua carta d’identità. O Virtus o Fortitudo. La neutralità non era ammessa. Insomma gara 1 dei quarti di Eurolega si giocava in casa della Virtus a Casalecchio di Reno il 25 marzo, appena dieci giorni dopo il secondo derby stagionale. Troppo pochi per raffreddare gli animi. La narrativa voleva che la Teamsystem avesse tante armi offensive, ma che la Kinder con la sua difesa stroncava anche gli attacchi più dotati. E non era uno scherzo. Quella pallacanestro era ferro e sudore rispetto allo zucchero filato che si vede oggi. I bassi punteggi erano ovunque, anche nella Nba di Michael Jordan, tanto che all’epoca la lega provò ad accorciare la distanza del tiro da tre per aumentare il fatturato delle squadre. Ci si picchiava perché era concesso farlo, perché gli attaccanti non avevano vantaggio sui difensori, e perché tra le due squadre di Bologna era inevitabile. Quella sera la difesa della Kinder annienta l’attacco della Teamsystem. Ma non rende nemmeno l’idea. Non è che lo limita. Lo spiana. Sul 62-49 a 2’10” dalla fine la partita è obiettivamente finita, Rivers sbaglia un tiro coi piedi per terra che di solito entra sempre, Fucka trova un raro rimbalzo offensivo, Savic decide che non deve concedergli manco quello e gli piazza una manata tra le scapole. Oddio, manata. Diciamo colpo di maglio alle spalle. Fucka ve lo ricordate e non è mai stato un tipo da reazioni scomposte. Qui arriva oltre il punto di sopportazione, si gira, combo con spintone e palla lanciata addosso. In un attimo è pandemonio, Myers non si tira indietro nemmeno se c’è da mulinare i pugni ma è diventata guerra sul serio e le tensioni di mesi esplodono in un’ammucchiata selvaggia, c’è Abbio contro Fucka, c’è mezza nazionale italiana a darsele senza esclusione di colpi. Morandotti trattiene a stento Danilovic, lui e Myers se le promettono e se le ritroveranno nella rivalità più incredibilmente senza senso, ma senso unico, del basket italiano moderno. Ora li vedete ogni tanto su Instagram che brindano a cena insieme, all’epoca era difficile fargli condividere anche lo stesso parquet. Ci vogliono sei minuti buoni per riportare una parvenza di calma, dieci espulsi, la Fortitudo chiude con tre giocatori in campo in un finale surreale, squalifiche a pioggia. La Virtus vince 64-52 e vincerà anche gara due 58-56 guadagnandosi le Final Four e poi il trionfo, 58-44, contro l’Aek in finale. Immaginate una serie del genere con il formato di oggi, al meglio delle cinque invece che delle tre. Anzi, immaginate che quello scenario si vide veramente in quella stagione, nella finale scudetto. Nel prossimo episodio.