Kobe Bryant e i perché di una morte più grande delle altre

L'emozione generata dalla scomparsa di Kobe Bryant non è solo commozione per la perdita di un personaggio enorme nell'immaginario collettivo. Apre enormi interrogativi e ci costringe a esplorare zone oscure di noi stessi

C’è un motivo per il quale alcune morti ci sembrano più grandi e profonde di altre? Esiste una macabra classifica nella quale alcuni eventi tragici legati a personaggi famosi finiscono sul podio rispetto a tutti gli altri? Esiste una risposta logica? Sono tutti interrogativi aperti dalla scomparsa di Kobe Bryant, che con il passare delle ore e dei giorni si gonfia e si appesantisce invece di sgonfiarsi e alleggerirsi come succede di solito. Abbiamo detto, ed è vero, che la sua è la prima morte di una divinità sportiva nell’epoca della rete, della connessione perenne e dei social. Ma andando a scavare nelle pieghe della commozione, indagando con attenzione nei meandri dello sconforto, non ci troviamo solo questo. Il dolore che lega paesi e genti lontanissime tra loro, che fa colorare di viola e di giallo Los Angeles e grande parte degli Stati Uniti, che spazza via tutte le altre notizie perché i nostri sensi non rivolgono la loro attenzione che a questa, è indubbiamente trasversale, per certi versi universale. Ognuno sicuramente lo declina a modo suo, legandolo, linkandolo diremmo oggi, a qualcos’altro. Un ricordo, un frammento. Ispirazione, addirittura devozione. Una canzone. Ci facciamo venire in soccorso da alcuni passi del testo di The Wind Cries Mary di Jimi Hendrix, un altro di quelli venuti al mondo per dare tanto e starci troppo poco. Questo vento che oggi piange Kobe non aveva mai soffiato e apre sguardi su lande anche desolate e oscure che non avevamo mai completamente esplorato. Perciò continuate a leggere a vostro rischio e pericolo.

You can hear happiness staggering on down the street
Footprints dressed in red

Puoi ascoltare la felicità vacillare laggiù in fondo alla strada, impronte vestite di rosso. In fondo alla strada, alla fine della settimana, molto spesso c’è una domenica. E insieme a lei, altrettanto spesso, c’è quel senso più o meno corposo di felicità di un giorno di riposo, di spazi personali che per una manciata di ore vincono la partita sugli impegni professionali, sugli obblighi e su tutte quelle cose che si fanno per dovere e non per piacere. E’ possibile che uno dei motivi per cui la morte di Kobe Bryant è deflagrata in maniera tanto fragorosa sia proprio perché è capitata di domenica. In Italia è esplosa all’ora di cena, ma negli Stati Uniti orientali era pomeriggio e in California appena mattina. Avrebbe generato le stesse sensazioni se fosse successo in mezzo alla settimana, un martedì o un mercoledì, ma probabilmente l’essenza dei giorni feriali avrebbe messo un piccolo silenziatore al sordo fragore delle emozioni. La testa non può essere riempita all’infinito e quello che non trova spazio finisce sempre dentro una cartella con l’etichetta ‘poco importante’ o ‘meno importante’. La domenica è il giorno in cui lo spazio si genera da solo per mancanza di veri avversari e Kobe Bryant l’ha occupato tutto, dilagando. E poi la domenica è il giorno della spensieratezza e non è casuale se gli eventi sportivi nazionali da sempre vi si piazzano al centro. Spensieratezza, felicità. Che a un certo punto iniziano a barcollare in fondo alla strada, in fondo alla domenica. Impronte macchiate di rosso. Di sangue. Una morte traumatica, uno schianto, fanno anche più effetto perché sono l’incubo ricorrente di molti. Da qui si parte, e ci torneremo.

 

A broom is drearily sweeping
Up the broken pieces of yesterday’s life

Una scopa sta sconsolatamente spazzando i frammenti andati in pezzi della vita di ieri. Che esattamente è quello che è successo domenica 26 gennaio 2020. Una morte talmente enorme che cambia immediatamente la linea tracciata dalla storia, la fa deviare per una tangente alternativa e tutti, in ogni parte del mondo, hanno avvertito distintamente questa sensazione. E’ uno dei motivi per cui certe morti diventano più grandi di altre. Quando, a parità di traumi, hai la percezione che niente sarà più come prima. Quanti eventi del genere un essere umano affronta se gli è dato di vivere nella media attuale, circa ottanta anni? Tre, forse quattro, anche se è una stima quasi impossibile. Dentro gli ultimi venticinque anni ci sono stati Ayrton Senna e Lady Diana. Forse Muhammad Alì, ma era anziano e malato. Forse Giovanni Paolo II, ma che i papi muoiano da vecchi è, nella nostra concezione, fisiologico e l’effetto è provocato dalla causa opposta, ovvero per quanto tempo ci sono stati. Più ci sei, e più gli esseri umani faticano ad accettare la perdita. Oppure, nel caso dello sport, più diventi grande, più sali in alto, più travalichi i confini, più gli esseri umani si convincono che sarai eterno. Che Kobe Bryant ci fosse era indiscutibile. A ben guardare, scopriamo che c’era stato anche per molto più tempo di quanto lo avevamo effettivamente vissuto. Nei cassetti e nelle cornici di tutti i genitori del mondo ci sono foto dei figli quando sono ancora cuccioli, solo che rimangono a disposizione di pochi intimi. Invece Kobe Bryant era stato figlio di un giocatore professionista, era già esposto al pubblico da bambino, stava già per conto suo dentro un sacco di foto, di filmati amatoriali, di ricordi di gente che non gli era parente. Quando dopo un po’ di anni lo abbiamo ritrovato in cima alla Nba, abbiamo semplicemente dovuto incollare il presente al passato per trovare un filo rosso lungo più di trent’anni, dalle vhs agli smartphone, specialmente qui in Italia dove era cresciuto. Kobe Bryant nei fatti c’è stato per più tempo di Giovanni Paolo II. E la vita, quando questi personaggi scompaiono, non è più quella di prima. Nella percezione naturalmente, non nei fatti. Ma questo ci insegna anche che le divinità del futuro dureranno più a lungo di quelle della vita di oggi e di ieri, perché probabilmente avremo l’intera loro esistenza, fin da neonati, esposta da qualche parte sui social e custodita negli smartphone di chissà quante persone. Dureranno di più, ne avremo effettivamente di più, e per questo faremo più fatica a farne a meno.

Somewhere a queen is weeping
Somewhere a king has no wife

Da qualche parte, una regina piange. Da qualche parte, un re non ha più una moglie. Certo che da qualche parte c’è una regina che piange, non puoi non pensare subito alla moglie e alle figlie sopravvissute. Indaghiamo su questo tasto specifico e scopriamo che la fatalità è ancora più atroce perché ha tolto la vita anche a una bambina di 13 anni. E’ giusto che dettagli tanto peculiari e individuali e impossibili da pianificare, come il fatto di avere una famiglia composta di sole donne, una moglie e quattro figlie, ci faccia sembrare più straziante una tragedia rispetto a un’altra? E in termini più ampi, è giusto che dedichiamo più tempo a piangerla rispetto ad altri uomini e donne che hanno perso la vita in circostanze simili? Probabilmente non lo è, no. Forse non è giusto, ma è altrettanto inevitabile. Riserviamo i nostri onori a chi entra dentro il nostro immaginario, a chi fa qualcosa per starci dentro e rimanerci. E’ in quello spazio di cervello dove nascono gli stereotipi, in accezione positiva, o i luoghi comuni in accezione negativa. Non è semplicemente uno scambio emozionale, non è un baratto del tipo ‘ti dedico tutti i miei pensieri per una quantità di tempo indefinita in cambio delle emozioni che mi hai fatto provare’, perché in questi giorni è pieno di persone con il cuore in frantumi che Kobe Bryant non l’avevano mai visto giocare e non sapevano nemmeno cosa era capace di fare su un parquet. E’ il luogo della memoria che si riserva ai grandi della storia. Ed è un loro merito specifico, non un demerito di chi nella storia non ci è entrato o non è riuscito a farlo. Insomma, da un punto di vista prettamente fisiologico, o più correttamente necrologico, una singola morte vale esattamente quanto tutte le altre. Forse che quella di Napoleone, dal punto di vista della dignità umana di una vita che si esaurisce, valesse più di quella degli altri generali, per non parlare di tutti i soldati morti in battaglia per lui? Sicuramente no, però è la sua morte che ispira il Cinque Maggio di Manzoni. Non le altre. Sono le morti dei faraoni che generano le piramidi. E’ per questo che ad alcuni esseri umani si dedicano i nomi di strade e piazze e ad altri no. Alcuni individui entrano nella storia perché diventano sovrani nella nostra sfera emotiva e cognitiva, per meriti più o meno nitidamente definiti. E se da qualche parte un re non ha più una moglie, significa che ci sono solo vedove. O orfani. O entrambe le cose. Che è come ci sentiamo in queste circostanze.

The traffic lights they turn a blue tomorrow
And shine their emptiness down on my bed

I semafori diventeranno blu domani, e faranno risplendere il loro vuoto sul mio letto. I semafori a Los Angeles, per un sacco di velivoli e particolarmente per gli elicotteri, la mattina di domenica 26 gennaio 2020 erano rossi. Non per tutti, però. Sicuramente non per l’elicottero di Kobe Bryant che a quanto si sa ha ottenuto un permesso speciale di volare in condizioni meteo particolarmente avverse. Nebbia. Niente di insolito nella città degli angeli. Chissà se e quante altre volte quell’elicottero aveva volato con scarsa visibilità e non era successo niente. Ma è pieno di disastri aerei, nello sport, nella politica, nello spettacolo. Non staremo qui a fare l’elenco. Ma altre due vogliamo ricordarle, perché sono recenti e perché presentano punti in comune. Emiliano Sala, attaccante argentino, precipitato nella manica il 20 gennaio 2019 volando con un trabiccolo pericolante nel tentativo di raggiungere Cardiff da Nantes, la sua nuova destinazione sportiva. E Vichai Srivaddhanaprabha, il proprietario del Leicester dei miracoli che con Claudio Ranieri in panchina vinse la più improbabile delle Premier League nel 2016, precipitato con il suo elicottero il 27 ottobre 2018 nel parcheggio del King Power Stadium. Velivoli che precipitano, elicotteri che vanno a fuoco, passeggeri che non hanno scampo. Ma è sicuro, ed è già così, che di Emiliano Sala e di Vichai Srivaddhanaprabha si ricorderà un numero sempre più relativo di persone mentre di Kobe Bryant sapranno tutto anche le generazioni future, ne conosceranno la storia anche coloro che non erano nati il giorno della sua morte. Ancora, dov’è precisamente che la cronaca di un episodio drammatico trasforma la tragedia in mito e un racconto diventa immortale anche quando l’attualità torna a prendere il sopravvento? E’ chiaramente brutale dirlo, ma la differenza la fa proprio quel vuoto che risplende sul letto. Più precisamente, la differenza la fa chi quel vuoto è in grado di generarlo nella testa e nello stomaco di milioni di persone con la sua assenza improvvisa. Non è un demerito di Emiliano Sala e Vichai Srivaddhanaprabha non avere potuto farlo, benché avessero comunque fatto la differenza nei loro rispettivi ambiti di appartenenza. E’ semplicemente un merito di Kobe Bryant esserci riuscito.

Will the wind ever remember
The names it has blown in the past?
And with its crutch, its old age and its wisdom
It whispers “no, this will be the last”

Potrà mai il vento ricordare i nomi che ha sussurrato in passato? E con la sua stampella, la sua vecchiaia e la sua saggezza, sussurra: ‘No, questo sarà l’ultimo’. E per ultimo, diventa davvero oscura e quasi impenetrabile nella sua assoluta contraddizione. Un pensiero ricorrente, quando la concitata emotività del momento lascia spazio a un briciolo di razionalità, è che la fine di molti personaggi famosi è racchiusa nell’essenza stessa dell’essere famosi. L’esclusività che ti porta la fama ti permette esperienze che altrimenti non avresti potuto vivere. Ti mette dentro mezzi di trasporto che altrimenti non avresti potuto permetterti. Insomma, in quanti hanno il privilegio di potersi spostare con un elicottero privato? Perciò, ecco, se Kobe Bryant fosse stato un po’ meno ricco, o un po’ meno insofferente al traffico di Los Angeles, o un po’ meno premuroso come papà se è vero che aveva iniziato a usare l’elicottero perché un giorno il traffico gli aveva fatto perdere la recita scolastica della figlia, adesso sarebbe ancora vivo. Ma non è vero. E non è vero perché il nostro cervello, nel suo raffinato e fondamentale compito di metterci ogni istante nelle condizioni migliori per provare a sopravvivere, ci fa dimenticare che statisticamente è molto più facile morire in un incidente stradale che a bordo di un velivolo. E al contrario, ci fa molto più spaventare quando saliamo a bordo di un aeroplano rispetto a quando entriamo in un’automobile. Il fatto che Kobe Bryant sia morto in un incidente di elicottero non toglie un grammo di peso al peso granitico dell’evidenza, e cioè che statisticamente aveva molte più probabilità di morire in qualsiasi momento della sua vita salendo a bordo di qualsiasi altro mezzo di trasporto che non fosse un elicottero. Ma è proprio questa la contraddizione. Che noi non potremmo fare tutto quello che facciamo ogni giorno, se avessimo paura di farlo. Chi salirebbe più a bordo di una macchina se si mettesse a pensare alle probabilità statistiche di un incidente? E chi riuscirebbe a stare tranquillo sotto un tetto se sapesse che la maggior parte degli incidenti fatali sono quelli domestici? La quotidianità, al contrario, è anestetizzante. Deve farlo, è necessario che ci renda immuni dal pericolo, che ci dia almeno l’illusione di esserlo. Anche qui il ragionamento torna a essere brutale. Il vento non può sussurrarci tutti i nomi che si è portato via in passato, perché non riusciremmo a tollerarli. Tutti i giorni ne porta qualcuno, a migliaia, ma sono sempre quelli degli altri. Sono i nomi necessari a generare l’anestesia, a produrre l’effetto che ci fa credere che è successo a loro solo perché non poteva succedere a noi. E senza questo pensiero non riusciremmo neanche a muoverci. E’ fondamentale poterlo pensare, doverlo pensare. Ma quando succedono fatalità come quelle di Kobe Bryant, l’anestesia finisce. La corazza svanisce. E ci scopriamo di una fragilità estrema, in balia di quello stesso vento che doveva proteggerci, frammenti sottili che possono essere spazzati sconsolatamente da una scopa. Se i semafori il giorno dopo improvvisamente diventano blu, invece che rossi o verdi, come facciamo a proteggerci nel nostro cammino di tutti i giorni, a sapere se possiamo andare, a capire quando ci dobbiamo fermare? Perché se è capitato a lui, che era sovrano e divinità, che aveva tutte le possibilità e le disponibilità, può capitare in qualsiasi momento anche a noi che quelle possibilità e disponibilità non le abbiamo. E’ confortante e sconfortante allo stesso tempo sapere che questo era vero anche prima e sarà vero anche dopo. Anche se non ce ne rendiamo conto, il vento ci sta già dicendo che no, non ci sarà una nuova tragedia come quella di Kobe Bryant, non ce ne sarà un’altra. Che questa sarà l’ultima. Se ci mettessimo a pensare continuamente che prima o poi succederà di nuovo, e sappiamo che succederà, non potremmo ricominciare. E invece ricominciamo sempre. Sarà così anche per Kobe Bryant. Arrivati quaggiù, forse è solo semplicemente più chiaro per quanti e quali motivi stavolta ci vorrà più tempo.