Kobe Bryant, la morte della prima divinità sportiva nell’era social

La scomparsa di Kobe Bryant è quella della prima divinità moderna dell'era social. Un dolore e uno sgomento di proporzioni che ancora non conosciamo e che dovremo imparare a metabolizzare

Ma come fai a trovare le parole? E tanto a che serve ricordare i punti segnati, i titoli vinti, i record, l’ispirazione, la doppia maglia ritirata allo Staples Center, perché un numero solo era troppo poco per chi ha avuto per quasi due decenni più numeri di tutti. A niente. Non serve a niente perché Kobe Bryant che se ne va è un colpo stordente che colpisce tutti, un diretto al mento che manda non una città, non una nazione, non un continente ma il mondo intero al tappeto. La suggestione è tale che viene subito in mente un episodio che generò un terremoto simile, per motivi diversi, sempre a Los Angeles. Nel 1991, quando Magic Johnson, l’altra leggenda assoluta dei Los Angeles Lakers, annunciò al pianeta di essere sieropositivo. Quasi trent’anni per scoprire che le divinità assolute possono ammalarsi e possono anche morire in un incidente di elicottero.

Solo che il mondo tre decenni dopo non è nemmeno lontano parente di quello che era all’epoca e una notizia che ci metteva ore, a volte un giorno intero ad arrivare, adesso arriva prima che ve ne sia la conferma ufficiale. Dentro le pieghe della storia moderna la scomparsa di Kobe Bryant sta insieme forse ad altri due eventi. La morte di Ayrton Senna a Imola nel 1994 e quella di Lady Diana nel 1997. Avvenuti in altrettanti incidenti meccanici, anche se in contesti completamente diversi, e capaci di stravolgere la percezione collettiva dentro un campo cognitivo particolarmente sensibile, quello degli eroi che sembra ci saranno per sempre e invece se ne vanno troppo presto. Ma erano altri tempi, appunto, internet era appena agli albori, non c’erano i social e non c’era la capacità di provare empatia, e odio, e semplicemente l’intera vasta gamma di emozioni umane e di condividerle con persone sparse ovunque nel globo, senza conoscerne nessuna ma come se in circostanze del genere le conoscessimo tutte.

Perché poi è questo che rappresenta e rappresenterà il 26 gennaio 2020. Diventa e diventerà il simbolo, la data in cui la prima divinità sportiva nell’era social scompare e all’improvviso un intero pianeta si scopre unito a piangerlo e ricordarlo. Ovunque. Proprio perché Kobe Bryant non è stato solo uno dei più grandi giocatori nella storia della Nba e nemmeno soltanto uno dei più grandi sportivi di sempre. E’ stato un’icona, un uomo che trascende il parquet e dilaga ovunque, anche molto lontano dalla pallacanestro, anche estremamente distante dallo sport inteso nell’accezione più ampia del termine. L’emblema della globalità, la fama diffusa anche su chi non sapeva niente di Nba, su chi non seguiva il basket, su chi non conosceva lo sport, un empireo al quale sono ascesi pochi individui nella storia dell’umanità. Michael Jordan prima di lui, in un’epoca nella quale la rete era solo quella del canestro. Maradona. Pelé. Il papa. John Fitzgerald Kennedy forse. Non ne vengono in mente molti altri.

Però, appunto, Kobe Bryant è il primo a farlo nell’epoca della connessione perpetua e ininterrotta e per questo anche la commozione, lo sgomento, l’incredulità assumono dimensioni che non si erano mai viste prima. Quando diventi parte integrante della vita di tutti, e tutti ti condividono e la condividono e si condividono, un’assenza del genere diventa quasi impossibile. Da metabolizzare prima e da sostenere dopo. Non puoi nemmeno concederti un attimo di respiro, di raccoglimento, di distacco, perché ti raggiunge ovunque.

Quando diventi una divinità moderna e sei il primo della storia a esserlo e ad andartene, il contrappasso è atroce perché ci ricorda che la vita nella sua essenza è un’imperfezione diversa da quella che immaginiamo, che sogniamo, che manipoliamo, se non per noi stessi per quelli che ce l’hanno fatta e stanno al piano di sopra, dove siedono i numi. Che per loro stessa essenza sono – o meglio ci piace immaginarli – intaccabili e intoccabili, immutabili e infrangibili, più in alto di tutto e anche delle leggi della fisica e della forza di gravità. E invece non è vero, ed è il grande inganno che l’epoca dei social rende non potabile e non digeribile. La vita vera torna qui ogni tanto a ricordarci che un motore può andare in stallo in qualsiasi momento, su qualsiasi veicolo a motore, su qualsiasi elicottero, e può portarsi via quelli che ci stanno dentro, non gliene importa niente se sulla carta d’identità hanno scritto ‘divinità’. Facciamo finta di saperlo, ma è molto più difficile accettarlo. E’ per questo che le reazioni più diffuse sono ‘non a te’, ‘non è possibile’, ‘non è giusto’, ‘non te lo meritavi’. Non se lo merita nessuno proprio perché, allo stesso modo e con le stesse probabilità statistiche, può capitare a tutti. Kobe Bryant ci ha insegnato molte cose, tra le quali quanta forza di volontà e feroce determinazione serve per diventare quello che è diventato. Oggi, purtroppo, ci insegnerà anche a gestire un dolore che per dimensioni, proporzioni e condivisioni, nell’epoca contemporanea non avevamo ancora conosciuto.