Il compleanno di Arrigo Sacchi, l’uomo che rivoluzionò il calcio (oppure no?)

Il compleanno di Arrigo Sacchi, l'uomo che ha cambiato il calcio italiano e mondiale, qui raccontato in una chiave alternativa

Esattamente trenta anni fa, più o meno di questi tempi, Arrigo Sacchi a 44 anni si avviava a vincere la sua seconda coppa dei campioni consecutiva. Trenta anni dopo, il primo aprile, ne compie 74 e non poteva essere casuale che succedesse proprio nella data del pesce, cioè delle burlonerie più o meno credibili. Sacchi è stato in effetti uno scherzo fatto dalla natura al gioco del pallone, che ha voluto rendere un venditore di scarpe di Fusignano senza un passato nel calcio l’interprete supremo di una filosofia sportiva mai più replicata. Con tutto il campionario di retorica che si è portato appresso, il Milan degli invincibili, la rivoluzione offensiva contrapposta al catenaccio, la zona pura con il fuorigioco estremo contro la marcatura a uomo, le vittorie eclatanti, c’è stato un calcio prima di Sacchi e ce n’è stato uno dopo. E non è stata più la stessa cosa.

Sacchismo e berlusconismo

Certamente l’uno non prescinde dall’altro. Perché non puoi essere un onesto allenatore e fare vedere bagliori di gioco a Parma e all’improvviso diventare il tecnico di un Milan pensato per imporre la propria legge e non solo per vincere, se dietro non hai un proprietario anche più visionario e audace di te. Non ci poteva essere Sacchi senza Berlusconi e in parte è vero anche il contrario, anche se Berlusconi senza Sacchi è stato comunque Capello e Ancelotti, altri trofei e altre coppe vinte. Mentre Sacchi senza Berlusconi, dopo, è stato qualche tessera di puzzle senza mai comporre il quadro completo. Avere alle spalle un presidente del genere è stata la fortuna di Sacchi nella prima fase di Milan, nella quale le idee innovative e a volte quasi utopistiche del gioco nuovo dovevano entrare nella testa di giocatori leggendari che però non necessariamente erano convinti della bontà della svolta. In questo non si può evitare di riconoscere una novità sostanziale nel calcio italiano, un solco scavato dal Milan nel quale meno di un decennio dopo entrò anche la Juve, con Lippi in panchina e la triade al timone. Oppure, nel nuovo millennio, il Barcellona con Guardiola. Costruire gli allenatori per fargli attraversare la storia e non sfruttare la storia degli allenatori per entrarci, come invece fece Moratti ingaggiando Mourinho per arrivare al triplete.

Sacchismo e fato

Certamente il 4-4-2, senz’altro il concetto di orchestra intonata, di sicuro la ripetizione ossessiva di movimenti e interpretazioni individuali che portavano a un collettivo che si spostava avanti e indietro per il campo all’unisono. Ritmo, stile di gioco, approccio e impostazione. Cercare l’uomo prima del calciatore e a volte non trovare il calciatore dopo l’uomo, vedi il rapporto usurato con Van Basten. Tutto questo fu il Milan di Sacchi e avrebbe poi dovuto essere anche la sua Italia, quella di Usa 94 e degli Europei inglesi del 1996. Però. Ed è un però che abbiamo raccontato anche per Carlo Ancelotti, non casualmente uno dei suoi allievi prediletti in campo e poi in panchina, come lui vincitore di due Champions League da allenatore. Siamo sicuri che avremmo avuto quel Milan e il concetto di sacchismo con risultati anche solo leggermente diversi? Prendiamo il campionato. Quella squadra ne vinse uno solo, nel 1987-88 e fu sì merito suo ma anche enorme responsabilità del Napoli che decise di sabotarsi per non fare un clamoroso bis poi comunque arrivato nel 1990. In quel quadriennio lo scudetto lo vinse anche l’Inter, i cugini, e non fu uno scudetto qualsiasi ma quello dei record nel 1989. Era un altro calcio, più competitivo in Italia, ma sui nostri campi quel Milan non ha mai dominato sul piano del gioco e dei risultati come invece fece quello di Capello all’inizio degli anni novanta. E senza la nebbia di Belgrado, con un Milan travolto dalla furia e dal talento della Stella Rossa, senza il rinvio di quella partita dopo l’1-1 dell’andata, senza pure quella fortunata lotteria dei rigori, parleremmo del Milan degli immortali? Non ci sarebbe stata l’umiliazione del Real Madrid al Bernabeu, il 5-0 a San Siro, il 4-0 contro la Steaua Bucarest in finale, né l’1-0 al Prater contro il Benfica l’anno successivo. Le trionfali campagne europee avvennero in un lustro nel quale in Europa non circolavano le squadre inglesi, escluse dopo la tragedia dell’Heysel. Non un dettaglio di poco conto se vogliamo misurare la competitività del calcio continentale di quell’epoca, come la finale di Pasadena giocata contro il Brasile arrivò in un torneo che alla partenza già non aveva Francia e Inghilterra e che poi perse velocemente l’Argentina per faccende di doping maradoniane e la Germania ai quarti. Qualificazione agli ottavi come migliore terza solo per la Russia che asfalta il Camerun, poi quella faccenda dei supplementari con la Nigeria e la visione di sé stesso sull’aereo del ritorno verso i pomodori e la contestazione prima del colpo di biliardo di quello col numero dieci quasi allo scadere. A volte la porta per entrare nella storia ha dimensioni davvero piccole e ci passi un po’ per bravura e un po’ per fortuna. Poi nella storia ci resti e i dettagli si dimenticano, o vengono diluiti nella leggenda, come è giusto che sia. L’epica del calcio non fa eccezione.

Il Sacchismo offensivo

Nella narrazione del calcio di Sacchi prevale questo concetto di calcio offensivo, audace, a petto in fuori, contro vento rispetto alla tradizione italiana del difensivismo e del catenaccio, del contropiede che era un termine quasi offensivo mentre oggi la parola ripartenza è esotica e seducente. Il che è vero perché quel Milan ha aperto una strada al modo di interpretare il calcio che in qualche modo ha rappresentato il big bang per tutto ciò che è venuto dopo. Non sarebbe successo senza un adepto quasi allucinato della grande Olanda di Cruijff, che proprio nella linfa olandese di Gullit, Rijkjaard e Van Basten trovò la propria sublimazione offensiva. E’ stato anche fatto però notare che quel Milan perennemente all’attacco era in realtà costruito su quella che probabilmente fu forse la migliore difesa italiana di tutti i tempi. Baresi, Maldini, Tassotti, Filippo Galli, Costacurta. Quattro di questi avrebbero condiviso con lui i mondiali del 1994. La coppa Intercontinentale del 1989 contro l’Atletico Nacional di Maturana, risolta da Evani un minuto prima dei calci di rigore, è ricordata da molti come la più bella partita a scacchi mai giocata da due allenatori su un campo di calcio e sul piano tattico è vero. Ma su quello dello spettacolo non lo fu affatto, in aperta antitesi con la vulgata sacchiana. Così come l’Italia di Sacchi negli Stati Uniti fu un collettivo solo nella prima mezz’ora della semifinale contro la Bulgaria, per il resto trascinata avanti dall’estro individuale di Baggio sia pure penalizzata da una situazione meterelogica insostenibile. Andando ad approfondire troviamo che le mura portanti delle squadre di Sacchi sono sempre nel reparto difensivo e che l’arredamento è stato di quelli da lasciare a bocca aperta, basta citare per la seconda volta Van Basten e Baggio. L’esperienza azzurra è stata esaltante in America, deprimente in Inghilterra. Quella all’Atletico Madrid trascurabile. Sacchi si è consumato presto e, in una sua splendida intervista a Paolo Condò, per sua stessa ammissione si sarebbe consumato anche prima se i medici del Milan non gli avessero risolto la gastrite. Troppo stress, troppi pensieri, troppe variabili fuori controllo per un uomo che il controllo voleva averlo su tutto. Ogni anno di questi tempi lo celebriamo come è giusto che sia. Non è stato soltanto magia, non è stata soltanto visione e nemmeno solo bravura, ma se oggi è questo il calcio che amiamo una buona parte di merito è anche sua.