La crisi di Vettel, è davvero l’uomo giusto per la Ferrari?

La stagione di Vettel, iniziata in maniera promettente, si è trasformata in un poderoso disastro e il tedesco è finito al centro delle critiche. E' lui l'uomo giusto per riportare il mondiale alla Ferrari?

Quando arrivò nel 2015 parve di rivedere la trama che nel 1996 aveva portato Michael Schumacher, che ha appena festeggiato cinquant’anni nell’impermeabile silenzio sulle sue reali condizioni di salute, sulla derelitta rossa di metà anni novanta con l’obiettivo di restituirle quello che era suo, un titolo mondiale che mancava dal 1979. La Ferrari veniva dall’epoca di Alonso, fenomenale solista con scarse doti di uomo squadra, che proprio in Vettel e la Red Bull aveva trovato la propria nemesi. Lo spagnolo si lacerava tra scarsa competitività in qualifica ed errori madornali di strategia ad Abu Dhabi, il tedesco collezionava quattro titoli mondiali. Finita l’epopea asturiana, si tornava a puntare sul talento teutonico per rimettere Maranello al centro del villaggio.

E all’iniziò funzionò pure. Vettel pareva il perfetto uomo squadra, l’erede di Schumacher, innamorato della rossa, veloce e concentrato. Il 2015 portò tre vittorie, il 2016 nessuna. Il 2017 sembrò l’anno della svolta, con una Ferrari non veloce quanto la Mercedes ma finalmente competitiva e incapace di giocarsela fino in fondo solo per problemi di ordinaria affidabilità nelle gare d’Oriente. E però a pensarci un paio di indizi sull’instabilità emotiva di Vettel c’erano stati. A Baku, con la ruotata da bullo ad Hamilton dopo avere perso pazienza e nervi dietro alla Safety Car. A Singapore, dove insieme a Raikkonen e Verstappen aveva confezionato la partenza disastrosa nella quale il mondiale del cavallino è andato a picco. E anche in Messico, dove in una partenza concitata aveva distrutto l’ala anteriore costringendo sé e Hamilton a ripartire dal fondo, a mondiale ormai andato.

La stagione passata

Episodi che rivisti un anno dopo assumono un’ottica diversa. Il 2018 di Vettel è stato disastroso, non si scappa. La Ferrari è cresciuta, pure senza essere pienamente compiuta, e lo ha messo nelle condizioni ideali per giocarsela alla pari con Hamilton per fare a chi per primo arrivava a cinque titoli mondiali. C’è sempre della retorica nello sport, ma c’è anche a volte una semplicità disarmante. Succede che tu sia forte, ma qualcun altro sia anche più forte di te. Il problema è che Hamilton si è dimostrato superiore a Vettel mentre il tedesco si dimostrava nettamente inferiore al britannico nella gestione dei momenti chiave della stagione. Errori, sporadici all’inizio e poi costanti in autunno. Tanti, troppi per uno che vuole chiudere il monopolio Mercedes e invece si spaventa nel gruppo come un neo patentato la prima volta nel traffico di punta della tangenziale. A Baku, frenata ritardata perché arrivava Hamilton da dietro, gara buttata. In Austria con la penalità per avere frenato un giro veloce di Sainz. In Francia, collisione con Bottas in partenza. In Germania, con il ritiro nella ghiaia sotto la pioggia, punto di svolta negativo della stagione e forse della sua carriera. A Monza, con l’incomprensione su Raikkonen e il botto con Hamilton alla Roggia. A Suzuka, l’impatto con Verstappen. Ad Austin, penalità al venerdì e pasticcio con Ricciardo la domenica, ancora al primo giro.

A memoria, non si ricorda un così alto numero di errori di un pretendente al titolo nella storia recente della F1. Forse solo Damon Hill, scartavetrato tecnicamente ed emotivamente da Michael Schumacher e dalla Benetton nel 1995. Ma Hill era un buon pilota e non un pluricampione del mondo come Vettel e l’importanza di quella stagione non era nemmeno paragonabile a quanto c’era sul piatto della bilancia nel 2018. Può questo pilota, questo Vettel, essere la stella polare della Ferrari nella rotta che porta al mondiale ormai assente dal 2007? Ci sono due risposte, nessuna delle quali definitiva.

E’ l’uomo giusto

Sì, può, perché i periodi di sbandamento capitano a tutti. In modo diverso anche ad Hamilton, che per andare a intermittenza a fine 2016 scoprì che aveva dovuto cedere lo scettro a Nico Rosberg. Può farlo, Vettel, anche perché al momento vi viene in mente un altro nome che potrebbe senza indugi combattere contro Hamilton e la Mercedes? L’unico è Ricciardo, che però se n’è andato in Renault e intorno ai trent’anni non ha mai corso una gara decisiva per il titolo nella sua carriera, né condotto una stagione da candidato al mondiale. Per Leclerc bisogna aspettare, per ora solo indizi, sia pure promettenti. E’ comunque quanto di meglio offra al momento la piazza, al netto di Verstappen che lui pure però deve dimostrare di essere capace di recitare lo spartito da uomo che ragiona a lungo termine e non curva per curva.

Non è l’uomo giusto

Oppure non può, perché due stagioni di altalena emotiva fanno una prova. Alonso diceva che Vettel vinceva solo grazie alla macchina, e al netto del suo fegato corroso negli anni rossi della sua carriera forse qualche ragione l’aveva. In molti stanno sottolineando che il tedesco va in crisi quando deve gestire un momento difficile, che invece di farsi prudente si fa salire la mosca al naso e reagisce d’istinto invece che con la freddezza dei nervi. I tanti errori in partenza non possono essere un caso, se ripetuti in un così lungo arco di tempo. Lo pensa anche la Ferrari, che gli ha tolto una certezza (quasi) mansueta di compagno di squadra come Raikkonen per mettere a bordo un francese rampante come Leclerc. Il segnale è chiaro: sei tu la prima punta, ma se non funzioni abbiamo un’alternativa pronta e futuribile. Forse non a medio termine, ma nel brevissimo spazio di tempo delle prime sei gare del prossimo mondiale.

Le prospettive

Che Vettel stia deludendo, sé stesso e quelli che avevano creduto in lui, è innegabile. Che possa trovare le risorse per risalire emotivamente e tecnicamente la china e fare del 2019 la stagione delle rivincite sue e della Ferrari è una speranza. A fidarsi dei precedenti, è difficile ritrovare un pilota in grado di cambiare completamente la propria sfera emotiva e trasformare gli spigoli in curve, di rendere liscio ciò che è ruvido. Perciò, tra le due, tendiamo a essere pessimisti più che ottimisti. Vero che anche Schumacher vinse solo alla quinta stagione in Ferrari per non fermarsi più e che prima lui pure aveva dovuto ingoiare le critiche, con l’attentato a Villeneuve a Jerez nel 1997, l’errore in partenza a Suzuka nel 1998 e la gamba rotta nel 1999 a Silverstone. Ma erano sbavature dentro stagioni leggendarie, mentre il 2018 di Vettel è stato sbavature alternate a qualche lampo di genio. Il 2019, in un modo o nell’altro, riscriverà le gerarchie della F1 con cerchi concentrici che invaderanno anche le stagioni successive.