Serie A e scienza, la convivenza impossibile ma necessaria

I tempi di attesa per la ripresa della serie A si allungano. Ecco perché a fare la differenza è il rapporto con la scienza, al momento necessario ma impossibile

Questo articolo parte da due spunti apparentemente distanti in partenza ma che convergono in maniera inequivocabile fino a intrecciarsi. La serie A che pensava di ripartire il 4 maggio con allenamenti a piccoli gruppi, sul modello della Bundesliga, domenica sera si è trovata a scoprire che non sarà possibile fare attività di squadra almeno fino al 18 maggio. Contemporaneamente Mike Ryan, il capo irlandese del programma globale delle emergenze, ha espresso probabilmente il concetto più importante per capire a che punto è non solo il calcio, ma l’intero sport, nel processo di convivenza con la pandemia globale:

Al momento nessuno accetta che non esista un rischio zero. I governi, di fronte alla sfida che stanno affrontando, devono prendere decisioni da cui deriveranno conseguenze e saranno accusati di quelle conseguenze. La gente dirà: perché avete lasciato che succedesse? Ora abbiamo un altro focolaio‘.

La convivenza tra calcio e scienza

Tradotto: se il governo si prende la responsabilità di fare ripartire il calcio, e tutti gli altri sport che non sono individuali, o anche solo gli allenamenti, e poi uno o più tesserati vengono contagiati ed emerge un nuovo focolaio in un ritiro, o in un albergo, o nel quartiere della città nel quale è sito lo stadio che anche a porte chiuse ha ospitato circa 300 persone per permettere lo svolgimento della partita, quel governo deve rispondere non a una, ma a due domande pressanti. La prima: chi se la prende la responsabilità di quello che è successo? Ed è una domanda che non si elude, la stessa che si fanno i medici sociali delle squadre di serie A analizzando il protocollo di Lega e Figc per la ripresa delle attività. Ci sono responsabilità legali, penali, non solo etiche. La seconda domanda poi potrebbe anche essere più stringente della prima: perché avete permesso che accadesse? Il che si esprime con un concetto molto di moda in questi giorni, utilizzato anche da diversi ministri: ‘ci sono cose più importanti a cui pensare rispetto al calcio’. Non significa che il calcio non sia importante. Significa che nella percezione comune, un popolo nel momento dell’emergenza è disposto ad assumersi dei rischi di fronte ad attività considerate necessarie come per esempio garantire la filiera alimentare per portare i prodotti nei supermercati e permettere alla gente di mangiare, ma non è disposta a sostenere quel rischio di fronte ad attività considerate secondarie come l’intrattenimento. E’ di fondo un ragionamento sfocato, perché l’intrattenimento a tutti i livelli e quindi anche sportivo è una necessità primaria degli esseri umani nella gestione quotidiana dell’emergenza, ma parte da una considerazione fisiologica, quasi antropologica, inattaccabile. Per questo la convivenza tra calcio e scienza, così come tra scienza e tutte le attività quotidiane di un paese, diventa il vero tema primario per analizzare la possibile ripresa del calcio e dello sport. Un tema che una mente illuminata come Valerio Bianchini ha sintetizzato così sul suo profilo Facebook:

Sulla mia strada di allenatore sono stato fortunato perché ho incontrato sempre medici societari di grande livello umano e professionale. Ho sempre rispettato le prognosi che davano ai miei giocatori infortunati, ma confesso che a volte di fronte a impegni sportivi importanti, un po’ di pressione la mettevo ai medici che per natura tendevano alla massima sicurezza nel recupero dagli infortuni. E spesso, con molta intelligenza non disgiunta alla cautela, qualche miracolo è stato possibile. Dico questo a fronte del compito che hanno oggi le istituzioni nel conciliare i dettami della scienza e le esigenze dell’economia.

Il concetto di rischio zero

Ecco un altro punto che, se non adeguatamente dibattuto e compreso, rischia di spostare in avanti all’infinito il livello del dibattito e degli scontri tra chi vuole ripartire e chi chiede massima cautela. Quando si raggiungerà un punto in cui esisteranno prove scientifiche per dire che sarà sicuro riunire 10, 20, 200, 2000, 20000 persone nello stesso luogo per una partita o per una gara? La risposta è: mai. Non fino a quando il virus sarà sconfitto, per sua scomparsa o per la comparsa di una cura. E se a quel parametro di rischio zero a cui la scienza per sua natura ambisce e tende, non si può arrivare nella fase di convivenza con il virus, chi se la prende la responsabilità di consentire la ripresa degli allenamenti? Chi dà il via libera allo svolgimento di una partita anche se a porte chiuse? E’ un tema che abbiamo già trattato. Arriverà un momento, e a un certo punto non sarà più possibile spostare la risposta in avanti, in cui qualcuno dovrà farlo e non sarà la scienza semplicemente perché non è il suo compito. Il concetto di rischio zero attualmente non ha veramente a che fare con l’eventualità del tutto ipotetica che non esistano possibilità di contagio su un campo di calcio o in qualunque altra parte del mondo. Ha a che fare con la capacità di accettare il rischio come conseguenza di progressi che sono in parte scientifici, ovvero essere meglio preparati per curare eventuali nuovi contagiati, e in parte psicologici, ovvero ritrovare la sicurezza che serve per muoversi in un mondo che all’improvviso ci ha ricordato che può essere più pericoloso e incontrollabile di quanto eravamo disposti a riconoscere. Sono questi due parametri che permetteranno a qualcuno di prendersi quella responsabilità. O più precisamente, di intraprendere definitivamente una di queste due strade: o si gioca accettando una dose di rischio, oppure si decide che non si può più giocare fino alla scomparsa del virus anche se ci volessero anni. Ma è più probabile che succederà in paesi più avanzati sia dal punto di vista del sentire comune (rinunciamo tutti a qualcosa, in termini di sicurezza, per garantire a tutti qualcosa dal punto di vista del benessere collettivo, fosse anche solo collegato allo svago che genera l’intrattenimento sportivo) che dal punto di vista del processo decisionale. In Italia al momento il palleggiare a metà campo tra le istituzioni e i comitati tecnico-scientifici sta generando uno sterile possesso palla nel quale tutti toccano il pallone ma nessuno finalizza. Da una parte le società (che già in Lega da anni formavano un litigioso formicaio diviso da interessi contrapposti) accusano il ministro dello sport di sabotare il calcio, dall’altra il calcio viene accusato anche da organi istituzionali di vivere con una certa arrogante noncuranza al di sopra dei problemi del paese (oltre che delle proprie possibilità economiche). Naturalmente sul campo arriva un momento in cui qualcuno deve tirare in porta e si assume anche le conseguenze del gesto. In questa fase, per quanto riguarda la serie A, nessuno è disposto ad assumersi l’iniziativa perché i rischi di sbagliare quel tiro vengono percepiti come infinitamente superiori, in termini statistici, rispetto a mandarlo a segno. Ecco perché la ripresa del calcio, e degli sport di squadra, da noi potrebbe avvenire in ritardo. Perché la convivenza tra intrattenimento sportivo e scienza è al momento impossibile e il percorso per farla diventare una condizione necessaria è appena iniziato.