Resa autunnale, per la Ferrari un incubo che si ripete

A Suzuka la crisi della Ferrari è esplosa in maniera fragorosa. Motivi e prospettive di uno dei momenti più difficili nella storia recente di Maranello

Lewis Hamilton che alza le braccia al cielo, la sua Mercedes prima sul traguardo dopo avere messo da parte distacchi abissali in qualifica e le Ferrari dietro, a interrogarsi sul perché quando l’estate lascia spazio all’autunno l’epilogo è sempre lo stesso. I tedeschi che sollevano i trofei, il britannico che sorpassa Vettel a quota cinque mondiali e adesso vedo all’orizzonte perfino l’inarrivabile record di Schumacher, Maranello che si trova dentro il proprio incubo ricorrente al quale deve dare soluzioni prima che risposte. Come se fosse facile.

La crisi

Che è successo da luglio in avanti, cioè da quel giorno in cui a casa sua Sebastian Vettel si prendeva la pole position e cavalcava nel sole verso l’allungo su Hamilton? Da Hockenheim in avanti, pioggia. Concreta e metaforica. Il ritiro in Germania per un errore di guida (ma guidare questa Ferrari sotto la pioggia è come piegare una saponetta ai propri voleri sotto la doccia, aspetto tecnico su cui non ci si sofferma mai abbastanza) con l’asfalto umido ha fatto il paio con le qualifiche di Budapest, improvvisamente bagnate come quelle di Suzuka. Lo scorso anno la rossa si perse già a Monza a inizio settembre, nel 2018 la crisi è arrivata a Singapore. Una crisi tecnica che si lega a filo doppio con quella strategica, dirigenziale e si annoda intorno a un pilota, Sebastian Vettel, che con troppi errori non ha capitalizzato un vantaggio concreto nella prima parte di stagione. Un pilota che disperde punti contro un rivale che non sbaglia mai, una monoposto messa sotto osservazione dalla Fia mentre la Mercedes silenziosamente celebra un improvviso matrimonio con gomme che fino al giorno prima parlavano una lingua non teutonica, la scomparsa di Marchionne. La tempesta perfetta in metereologia, il cigno nero in economia.

I motivi

Vettel è un discorso a parte perché il soffrire Hamilton emotivamente, nel momento in cui la battaglia tra i due è quasi alla pari sul piano delle monoposto, è una costante dallo scorso anno. Però un mondiale lo puoi perdere se sei un fenomeno e ti scontri contro uno che, per una o più stagioni, è più fenomenale di te. La ricorrenza della crisi autunnale va invece indietro nel tempo, anche a prima del tedesco, a una scuderia che fatica a sviluppare con costanza la monoposto in un’epoca storica nella quale i test sono proibiti. La Ferrari che dominava i mondiali, ma anche quella di fine millennio che combatteva contro la McLaren, i suoi problemi li risolveva consumando l’asfalto di Fiorano o del Mugello fino a che trovava le soluzioni. Questa, privata della sua forza nelle prove private, prima o poi sbanda e smarrisce la direzione dentro mondiali moderni nei quali l’aggiornamento costante premia chi ha metodo e conoscenze. La Mercedes, che ha obiettivamente un occhio benevolo dalla Fia (gomme dal battistrada accorciato per tre gare in questa stagione, anomalia su cui non si doveva passare sopra) e dai commissari di gara sul suo pilota (Hamilton che taglia la corsia box a Hockenheim), ha fatto un passo in avanti enorme dopo Spa. Ma non è in vantaggio sulla Ferrari come ci si aspetta in una stagione nella quale le due scuderie sono in equilibrio costante. E’ in fase di dominio come non si vedeva dal 2016 e un divario del genere, da Singapore in avanti, non si ottiene soltanto magicamente azzeccando ogni evoluzione. Lo fai se i tuoi rivali contemporaneamente sbagliano qualcosa (o se la Fia si irrigidisce con certe soluzioni azzardate e innovative, dicono i maligni). La Ferrari che a luglio ha perso l’uomo che l’aveva ricostruita ha improvvisamente smarrito la direzione. Non può essere una coincidenza.

Le prospettive

Perdere un leader, visionario e a volte spregiudicato ma comunque illuminato, ha conseguenze per chiunque. Per la Ferrari di più, perché stava ritrovando fisionomia, fiducia e coesione tra i vari reparti. Ingredienti saltati per aria nel sabato di Suzuka, con le gomme intermedie servite ai piloti invece delle slick, con Arrivabene che si fa saltare la mosca al naso e fa volare pubblicamente stracci che solitamente si lavano in silenzio nel paddock. E’ il simbolo della disfatta, più che della crisi. Marchionne aveva spedito Simone Resta, capo progettista della rossa, in Alfa Romeo. Non si cambia la formazione che vince proprio in mezzo al campionato, si diceva, ma al presidente piaceva così e poi qualcosa per colmare il buco inventava. Ma il destino interviene in maniera più imprevedibile di Verstappen e adesso la Ferrari senza presente rischia di rimanere anche senza futuro. La Mercedes scappa, la Red Bull del 2019 potrebbe incalzare, su Vettel si addensano nubi gonfie di dubbi e l’anno prossimo avrà in casa un giovanotto che è stato preso evidentemente perché lo stesso Marchionne riteneva che il tedesco potesse non essere l’uomo che riporta il titolo a Maranello e occorreva una carta di riserva dal talento abbagliante e la carta d’identità verde. Sembra di nuovo il 1991, con un esausto Prost affiancato dal giovane Alesi e finì con il francese più anziano licenziato perché disse che a bordo della Ferrari sembrava di guidare un camion. La strada va tracciata e al momento non Elkann né Camilleri sembrano figure in grado di dare una direzione pistaiola, proprio come Arrivabene vorrebbe una figura del genere a dettare le strategie dal muretto. Avevamo scritto che le conseguenze della perdita di Marchionne sarebbero state imprevedibili. Adesso hanno i contorni più delineati, ma generano altrettanta inquietudine.