Luis Sepulveda e quell’aneddoto sul calcio

Nel 2003, a Roma, Luis Sepulveda raccontò come era iniziato il suo percorso nella scrittura. Grazie a una ragazzina dai capelli lunghi e al suo amore per il calcio

Per Luis Sepulveda si può anche fare un’eccezione a una delle regole auree del giornalismo, o meglio del giornalismo di un tempo, ovvero che si scrive sempre in terza persona e mai in prima. Dunque eravamo alla fiera del libro Più Libri Più Liberi, un’ordalia che va tuttora in onda all’Eur a Roma (all’epoca al Palazzo dei Congressi, oggi alla Nuvola di Fuksas) a inizio dicembre. Fiera della piccola e media editoria, che poi è lo stesso concetto di piccola e media impresa però associata ai libri e quindi a contenuti che in Italia da molto tempo non venivano considerati essenziali già prima della pandemia. Sarà stato il 2004, ma più probabilmente il 2003. All’epoca funzionava così, ogni casa editrice aveva il suo stand al piano inferiore e vendeva i propri libri al pubblico in maniera feroce, selvaggia, spesso fantasiosa. In tanti ancora venivano a comprare libri, non tutti li leggevano. Una signora una volta mi disse: ‘Vengo qui ogni anno a comprare i vostri libri, una decina’. ‘E le piacciono?’ rispondo. ‘Non lo so, non li ho mica letti. Ma credo sia giusto comprarli’. Storia vera, per ricordare come l’Italia sia un paese nel quale la cultura si deve comprare al mercato ma non bisogna necessariamente usufruirne. Comunque sconti, promozioni, autografi degli autori, molti dei quali esordienti, o sconosciuti, o esordienti e sconosciuti contemporaneamente. Al piano di sopra invece c’erano sale conferenza e i libri si presentavano. Presentazioni di libri di autori molti dei quali esordienti, o sconosciuti, o eccetera. Ma non era sempre così. Ogni tanto venivano autori importanti, alcuni di fama mondiale o leggendari, spesso non a presentare i propri nuovi titoli ma quelli dei loro amici, gli autori esordienti o sconosciuti o entrambe le cose. Quell’anno venne Luis Sepulveda, che l’Italia la molto amava così come il resto del mondo, e naturalmente la sala era piena che si scoppiava. Ed eravamo tutti lì per lui e ricordo lo sconforto dell’autore spagnolo sconosciuto, di cui in effetti non ricordo il nome, che era lì a farsi presentare il libro da Sepulveda ma era letteralmente trasparente. Quando l’altro parlava, lui aveva un gomito appoggiato sul tavolo, una mano sulla guancia e la tipica espressione di sconforto di chi quella scena l’ha già vista troppe volte. Se mai il concetto di empatia ha avuto un significato concreto successe quella domenica nei suoi confronti, anche perché io lo capivo. Ero, come lui, un giovane scrittore esordiente e quasi sconosciuto. Anche se avevo appena fatto un’intervista con Il Venerdì di Repubblica e questo, ai miei occhi, qualche posizione in classifica me la faceva guadagnare.

Ma Sepulveda, lo capimmo presto, non era lì per presentare il libro del suo amico. Se lo fece, durò molto poco. Il tempo che qualcuno dalle prime file gli domandasse quale era stata la scintilla che lo aveva spinto a iniziare a scrivere. Era l’assist che cercava. Perché gli diede l’occasione per parlare dell’argomento di cui voleva parlare effettivamente, ovvero il calcio. E quindi mise in campo un meraviglioso affresco sudamericano nel quale pallone e narrativa si intrecciavano in un miscuglio suggestivo di italiano e spagnolo, che non può essere riportato senza privarlo della sua cadenza e musicalità ma che suonò più o meno così: ‘Quando ero piccolo, a Valparaiso in Cile, di una cosa sola mi fregava. Del pallone. Ero fissato. Ci giocavamo con gli amici per ore, tutti i giorni, e poi abitavo di fronte allo stadio della mia squadra del cuore e il tempo libero che mi rimaneva quando non giocavo lo passavo lì. Questo più o meno fino all’adolescenza. Un giorno, proprio accanto a casa mia, venne ad abitare una ragazzina. Bellissima, la più bella che avessi mai visto. Lunghi capelli neri e uno sguardo a cui potevi appiccicare i tuoi sogni. Mi passava davanti tutte le mattine, io la fissavo continuamente ma lei nemmeno si accorgeva di me. Perciò passai alcune notti pensando a cosa potessi fare per colpirla, un gesto con il quale conquistarla. All’improvviso mi venne l’illuminazione. Presi la bandiera della mia squadra, andai allo stadio e la feci firmare da tutti i miei giocatori preferiti. Nella testa di un adolescente, quello era il regalo più bello che si potesse mai ricevere. Così il giorno dopo andai da lei, le regalai quella bandiera piena di autografi, ma la sua reazione fu una delusione. Nessun cenno di entusiasmo, di interesse. Perciò le chiesi come mai quel regalo non le facesse almeno un po’ piacere. E lei rispose ‘non mi interessa il calcio’. ‘E che ti piace?’ domandai io. ‘La poesia’. Allora mi misi a comporre poesie per lei, ed è così che ho iniziato a scrivere‘.

Vai a sapere se quell’anedotto gli venne sul momento o se l’aveva già raccontato un milione di altre volte. Magari se l’era inventato di sana pianta, ma l’entusiasmo o la partecipazione con cui l’aveva raccontato fece pensare più o meno a tutti la stessa cosa, ovvero chissenefrega se è vero oppure no. E’ questo che fanno i grandi scrittori, trasformano qualsiasi cosa gli passi per la mente in un romanzo. Un romanzo parlato di tre minuti sul calcio e sulla letteratura. Per questo, raccogliendo un coraggio che non credevo mi appartenesse, alla fine della presentazione andai da lui a portargli una copia della mia versione in prosa moderna dell’Odissea che era appena stata pubblicata. Lui guardò il mio libro, se lo mise sottobraccio, poi mi guardò negli occhi e mi chiese: ‘Ti piace il calcio?’ ‘Certo’ risposi sorridendo. E lui, con quel suo sguardo penetrante e quasi inquisitorio: ‘Roma o Lazio?’ Dovette sembrargli una domanda logica, c’era appena stato il derby e in fondo è una delle prime cose che si chiedono a chi vive nella capitale. Iniziai a pensare a come spiegargli che non ero proprio tifoso di una o dell’altra squadra perché fare il giornalista sportivo imponeva di essere super partes, ma mi accorsi che erano già passati diversi secondi di silenzio muto e allora risposi: ‘Scusi maestro, sa, è che sono un po’ emozionato a parlare con lei’. E la risposta non me la scorderò mai perché era sincera, pulita, stupita, non certo quella che ti aspetti da uno che ha venduto milioni di copie mentre parla con uno che ne ha vendute qualche migliaia: ‘E perché sei emozionato? Tu scrivi libri, io scrivo libri. Siamo colleghi.’