Fenomenologia di LeBron James, la superstar Nba più difficile da valutare

LBJ è il più forte della sua generazione, uno dei più forti di sempre, ma continua a dividere le opinioni. Vediamo perché

E’ talmente forte che non si può valutarlo correttamente. E’ talmente avanti fisicamente che fa sembrare scontati aspetti del gioco che non lo sono affatto. Divide talmente le opinioni e i tifosi che si rischia di comprendere solo una parte della sua complessa capacità di innovazione nel basket. Analisi dell’atleta più forte del mondo, che nessuno riesce a definire come giocatore.

LeBron James abbandona il parquet prima dei suoi compagni, stravolto dalla fatica. C’è un’inquietante ciclicità in questa scena, ripresa dalle telecamere dopo ogni sconfitta di Cleveland nelle Finals Nba perse contro i Warriors. C’è tutto ciò che rappresenta un giocatore che non si era mai visto prima: per quello che fa sul campo, per le sue scelte fuori, per come divide i critici e i tifosi. C’è lui davanti, e tutto gli altri dietro. C’è lui solitario, e qualcun altro che festeggia. C’è lui che porta quasi da solo il peso del mondo, e il peso del mondo che alla fine schiaccia anche lui. Per la precisione, cinque volte sulle otto finali giocate. E qui si apre il dibattito, che tale è destinato a rimanere, ma nel quale è giusto addentrarsi perché coinvolge l’anomalia sportiva del nuovo millennio. E’ il più forte di tutti? E’ il migliore di tutti i tempi? Sono domande che ne portano altre, e sono considerazioni che riportano la lancetta indietro nel tempo. A un paragone con i nomi sublimi della storia del gioco, perché è così che si giudicano le leggende in America. Mettendole sulla bilancia insieme a quelle venute prima e poi facendo la tara per vedere chi sposta il piatto più in basso. Può essere considerato un vincente chi ha perso cinque finali sulle otto giocate? Alcuni credono di no. Può essere considerato un perdente uno che trascina in finale da sette anni consecutivi la sua squadra, e che almeno due volte ci ha portato delle versioni dei Cavs che realisticamente avrebbero dovuto finire la stagione molto prima? Noi riteniamo di no. Il dibattito è aperto, e durerà a lungo.

Atleticamente – Che sia il miglior atleta dell’epoca sportiva moderna è fuori discussione. Il miglior atleta non significa necessariamente il miglior giocatore, ma è chiaro che montare quel quoziente intellettivo cestistico su un telaio del genere renda la combinazione non solo rara, ma addirittura anomala. Questo riconoscimento arriva all’unanimità da tutte le galassie professionistiche sportive, non solo quella che si gioca sul legno: lo dicono le star del calcio, del football, del baseball. Se hai la struttura muscolare di un cinque, l’esplosività sul primo passo dell’ala piccola, se sei alto 2,03 ma hai anche le mani raffinate del portatore di palla, su un campo di basket puoi fare quello che vuoi. LeBron lo fa. E’ talmente intenso, e potente, e abbacinante, che si porta in dote un’altra anomalia. In relazione a tutti gli amanti del basket Nba che possono vederlo dominare su due lati del campo attraverso uno schermo in tutto il globo, in percentuale solo una parte risibile di loro ha avuto la fortuna di vederlo giocare dal vivo. Ma è solo di persona, realisticamente, che è possibile comprendere come mai il suo dominio è totale e non si era mai visto prima. E non succede vedendolo tirare, o schiacciare, o spezzare un raddoppio, o prendere un rimbalzo. La cosa che in televisione non si comprende, e fa spavento dal vivo, è la velocità e la potenza con la quale fa viaggiare il pallone da un lato all’altro del parquet, spesso partendo da metà campo per arrivare in angolo dalla parte opposta. E’ come avere un fast forward a tre o quattro volte la velocità con la quale si muovono gli avversari. E’ onnipotenza, e vedremo dopo che effetti, e che danni può fare, una condizione del genere.

Storicamente – A 14 anni dall’ingresso nella Lega è naturale metterlo in fila accanto ai grandi del passato. Ma LBJ veniva loro accostato anche quando era una matricola, perché già nel 2003 lo chiamavano il Prescelto. Era chiaro fin dall’inizio che il suo destino non sarebbe stato condiviso con i grandissimi, nomi come Oscar Robertson o Julius Erving o Hakeem Olajuwon e Tim Duncan o Isiah Thomas, ma con quelli che stanno ancora un gradino più in alto. Nel gotha. James va messo nella categoria di Bill Russell e Jerry West, di Michael Jordan, di Magic Johnson e Larry Bird, di Shaquille O’Neal e Kobe Bryant. Di quelli che il gioco non l’hanno solo fatto, ma trasformato. Ed è qui che si inizia a discutere. Gli americani, che ragionano a modo loro per lo sport come per quasi tutte le altre faccende quotidiane rispetto al resto dell’occidente, ricercano in maniera più o meno spudorata l’epica e il romanticismo nelle gesta dei loro eroi sportivi (il che è fisiologico per una cultura e una società ancora relativamente giovani). Ecco perché LBJ è diverso comunque da tutti questi nomi. Perché Bill Russell e Larry Bird sono approdati ai Celtics da rookie e non se ne sono mai andati. Michael Jordan ha messo i Bulls e Chicago sulla cartina geografica del pianeta, vale lo stesso per Bryant e i Lakers.

LBJ, per anomalia suprema, ha avuto in dote di essere scelto da Cleveland nel 2003, che è casa sua. Era la storia perfetta dell’atleta perfetto, fino al 2010, fino a quando non decise di portare i suoi talenti a Miami e condividerli con Dwayne Wade e Chris Bosh dopo una finale persa prematuramente, nel 2007, contro San Antonio. Gli americani, e non solo loro, storcono il naso davanti a una piega del genere, e tendono a diventare intransigenti se un Prescelto non solo abbandona la sua franchigia, ma anche il tetto sotto cui è nato. Anche Shaq aveva abbandonato Orlando dopo una finale persa, per poi farsi re della moderna dinastia Lakers: qualcuno mugugnò anche all’epoca, ma i più gli perdonarono il coast to coast perché non era un nativo della Florida. A Miami ha giocato quattro finali, ha vinto due titoli, ne ha persi due. In carriera ha giocato otto finali, perdendone cinque. L’epica impresa del 2016 e il titolo vinto rimontando da 3-1 gli ha ripulito quasi completamente la fedina penale dopo la fuga, regalando a Cleveland il primo anello della storia. La sconfitta contro Durant e i Warriors nelle ultime Finals ha riaperto il dibattito.

Le superstar, le vittorie, le sconfitte – Possiamo discuterne ancora, perché a parte Jordan e il suo percorso netto, tutti i nomi citati in questo paragrafo hanno in archivio una o più delusioni all’ultimo atto. Bill Russell vinse 11 titoli, ma perse la finale del 1958; Bird vinse 3 titoli, ma perse anche 2 finali contro i Lakers; Magic ha 5 anelli negli anni Ottanta, ma anche 2 finali perse; Shaq fece three-peat a Los Angeles tra il 2000 e il 2002 (e titolo nel 2006 a Miami), ma perse le finali del 1994 e del 2004; Bryant di anelli con i Lakers ne ha collezionati 5, ma ha perso anche due finali. Nessuno di loro ha giocato sette finali consecutive, come ha fatto LBJ tra il 2011 e il 2017, ma nessuno di loro ne ha perse cinque (con l’eccezione di Jerry West, che ne perse 8 vincendone 1 ma non abbandonando mai i Lakers). E se te ne vai dal tuo nido e poi ritorni, la trama vuole che il tuo percorso possa contenere una, massimo due sbavature. Non di più. James divide dal punto di vista del palmares, ma è una divisione che deriva dal suo status: quando un giocatore così compare per la prima volta sul pianeta, nessuno sa esattamente dove collocarlo. Ecco perché, volutamente, abbiamo omesso dalla lista dei più grandi il nome che forse, atleticamente e per carriera sportiva, è il più vicino a lui: Wilt Chamberlain.

Sportivamente – Quando Chamberlain comparve nella Nba, nel 1959, non si era mai visto niente del genere. Un lungo di 2,16 con la dinamite nei quadricipiti e braccia che si estendevano dalla East alla West Coast. Era fisicamente avanti di quarant’anni, proprio come James lo è rispetto a tutti i giocatori della sua generazione. Chamberlain è quello dei 100 punti o dei 55 rimbalzi in una partita, era quello che giocava 45.8 minuti a serata perché non si stancava mai, era quello che con mezzi atletici del genere avrebbe potuto competere a livelli mondiali nei 400 metri e nel salto in alto. Chamberlain cambiò il gioco, proiettandolo decenni in avanti, ma soprattutto ne cambiò la percezione a livello statistico e pratico, esattamente come LBJ. Nativo di Philadelphia, come James fu scelto dalla franchigia della sua città (che all’epoca si chiamava Warriors e che si trasferì subito a San Francisco), per poi tornare a casa proprio come il Prescelto una volta nati i Philadelphia 76ers, nel 1965. Infine fece una scelta simile a quella di James nel 2010: andò nel 1968 ai Lakers di Jerry West e Elgin Baylor, per provare a contrastare lo strapotere dei Celtics, ma finì con l’infrangersi anche contro i New York Knicks del 1970, al loro primo titolo (proprio come nel 2011 arrivò il primo anello della storia per i Dallas Mavericks, che superarono a sorpresa i Miami Heat del trio James-Wade-Bosh). Vinse due titoli Nba, uno in meno di quelli che LBJ ha conquistato finora, ma perse anche cinque finali. Si mise l’anello nel 1967 con la squadra di casa, Philadelphia e infine nel 1972 a Los Angeles. Wilt Chamberlain e LeBron James hanno in comune la stessa peculiarità sportiva: non sono semplicemente i più forti della loro epoca. Sono troppo più forti. E quando il tutto è troppo diventa difficile dargli la giusta collocazione. Perché ciò che riescono a fare tutte le sere, o in una serie di finale, diventa naturale. E tutto quello che non riescono a fare, compreso vincere un titolo Nba praticamente da soli, è automaticamente colpa loro.

Culturalmente – A differenza di tutti i grandi nomi citati in queste righe, inoltre, c’è anche un imprinting totalmente differente. LBJ è l’unico a essere entrato nella Lega con le stimmate del predestinato, di uno che avrebbe cambiato per sempre il basket, dell’uomo che lo avrebbe portato nel terzo millennio. Nemmeno Jordan, che pure aveva vinto un titolo Ncaa con canestro vincente nel 1982, arrivò nella Nba con le stesse aspettative. Le leggende della pallacanestro americana hanno fatto la storia durante la loro carriera, ma nessuno di loro ha dovuto convivere con le aspettative di doverla fare per forza, prima ancora di giocare una singola partita da professionisti. Provate a immaginare che genere di pressione, e che modo di pensare possano generare una condizione del genere nel processo di crescita di un uomo, prima ancora che un giocatore. E infatti il suo modo di comunicare è l’unico vero tallone d’Achille e lo rende distante da chi la ho preceduto: sta sullo stesso piano sportivo con ognuno di loro, ma è innegabile che James abbia meno appeal come personaggio di quanto ne avessero tutti gli altri.

La crescita – James nel 2007 trascinò i Cavs alla prima finale della loro storia: fu spazzato via 4-0 dai San Antonio Spurs, ma quella squadra era obiettivamente troppo debole per mettere le mani sul trofeo: si presentarono all’ultimo atto in anticipo rispetto ai tempi e solo perché LBJ giocava praticamente tre ruoli. Gli anni in Florida sono stati contraddittori, ma hanno segnato anche una crescita evidente nella sua comprensione del gioco, nel suo killer instinct, nella sua capacità di coinvolgere i compagni, nella definizione della sua leadership: nella Finale del 2011 fu accusato di non prendersi abbastanza responsabilità nei momenti decisivi, nel 2012 devastò Oklahoma City e nel 2013 fu per la seconda volta consecutiva Mvp di una finale decisa in Gara 7 con 37 punti, 12 rimbalzi e 4 assist. Nel 2014 l’organizzazione degli Spurs è stata superiore, e nel 2015 il ritorno a Cleveland ha messo in pista una squadra completamente nuova, a partire dall’allenatore. La difficoltà nel valutare James è che parla l’albo d’oro, che lo mette di nuovo dalla parte degli sconfitti, ma parla anche il campo: e le sue finali 2017, tripla doppia di media come mai nessuno prima, sono state probabilmente la prova individuale più stupefacente dell’intero nuovo millennio.

L’emulazione – Alcuni allenatori sostengono che LBJ sia talmente onnipotente da diventare diseducativo. Un paradosso di cui parlavamo all’inizio. Perché vedergli segnare una tripla da otto metri senza ritmo, o chiudere al vetro un’entrata spazzando via tre difensori, può far credere alle giovani leve che è così che si fa, che è facile farlo se vedi farlo a qualcuno ogni volta che mette piede in campo. Per Steph Curry vale un discorso simile. Ecco perché è così difficile giudicare LeBron James e collocarlo in maniera corretta nella storia. Perché non hanno ancora inventato gli occhi e gli strumenti adatti per valutarlo. E’ un discorso che andrà ripreso tra una decina di anni. Nel frattempo, Cleveland avrà dalla prossima settimana un’altra possibilità. La storia dell’ultimo lustro ci dice che, se hai James in squadra, è automatico che la tua squadra vada in finale. E sappiamo che, arrivati a quel livello, nemmeno lui può vincere un titolo da solo, soprattutto se ha fatto sembrare scontati tutti i livelli precedenti e se di fronte avrà di nuovo una delle squadre più forti di tutti i tempi.

Il futuro – Ma tutti gli amanti del gioco meritano di vedere cosa può succedere in un duello nel quale il cast di supporto tra le due squadre si equivale, almeno a livello numerico. Nella sua avventura a Cleveland non è ancora successo: nel 2007 per carenze oggettive del roster, nel 2015 per i troppi infortuni a tanti giocatori chiave, nel 2016 ha vinto e nel 2017 i Warriors avevano Durant. E il LeBron James di Miami fa meno giurisdizione, perché in Florida non era il giocatore che è oggi. La prossima tappa della sua carriera, forse, è finire nelle mani di un grande coach. Il che lo distingue dagli altri grandi del passato, spesso allenati da allenatori leggendari. Ha avuto Mike Brown, Eric Spoelstra, David Blatt, Tyronn Lue. Molti in questo vedono una sua precisa responsabilità ed è sicuramente vero che Lue è stato scelto su sua precisa indicazione.  Nessuno di loro è leggendario, né lo diventerà. E in questo momento nella Nba ci sono solo due nomi in questa lista. Uno, Steve Kerr, per ovvi motivi è da escludere. Il secondo, Greg Popovich, lo prenderebbe subito a San Antonio se decidesse di spostarsi di nuovo. Suggestivo, improbabile, ma non impossibile. Se andasse ai Lakers la leggenda non sarebbe il suo allenatore ma il suo general manager, Magic Johnson, non casualmente il primo uomo sopra i due metri a rivoluzionare il gioco giocando da play. Altrettanto suggestivo, non probabile ma altamente possibile.