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I calciatori mancini più forti della storia (forse)

E’ curioso come nel linguaggio comune, senza rendercene conto, ci siano una quantità di parole e modi di dire che fanno riferimento quasi sempre in accezione negativa alla sinistra (niente facili ironie politiche) e ai mancini. Giusto qualche esempio. In italiano, diciamo ‘giocare un tiro mancino’ quando parliamo di qualcuno che cerca di fare una manovra losca e scorretta. Gli incidenti stradali li chiamiamo ‘sinistri’. La parola ‘mancino’ viene dal latino mancus che significa imperfetto e poi è derivata in monco, che inizialmente significava (e continua a significarlo anche nel linguaggio odierno) privo di qualcosa. Anche in inglese va così. ‘Right’ è giusto, è avere ragione. ‘Left’ è quando ti sei perso qualcosa. La sinistra è la mano del diavolo e senza tornare ai tempi in cui, nemmeno troppo remoti, i bambini venivano costretti a tenerla legata dietro la schiena per diventare destrorsi c’è sempre stata una discriminazione verbale nei confronti di ciò che è mancino. Naturalmente ai calciatori nessuno poteva impedire di usare il sinistro e se è per questo, per fortuna, a un sacco di nomi nobili della storia mondiale recente è venuto in mente di usarla come credevano meglio. Stiamo su vette assolute tipo Albert Einstein, Jimi Hendrix e Kurt Cobain o Paul McCartney, Barack Obama, Gandhi, Charlie Chaplin, Van Gogh e anche Marylin Monroe anche se raramente la si guardava più in basso del gomito. Perciò qui c’è una lista dei calciatori mancini più forti della storia che è per forza di cose arbitraria e incompleta, ma che dovrebbe mettere d’accordo dal punto di vista almeno cronologico perché sono nomi che quasi tutti abbiamo visto giocare o abbiamo potuto visionare su un qualche schermo, analogico e digitale. In ordine rigorosamente sparso, a memoria, come vengono, senza criterio. D’altra parte mancino è sinonimo di inaffidabile, no?


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Diego Armando Maradona

Veramente bisogna spiegarlo? Maradona è il primo brand nella storia dello sport mondiale, insieme a Pelè, che basta a sé stesso. Dici un cognome e hai detto tutto. In realtà non è che con l’altro piede non sapesse fare niente, questo è stato baciato dalle divinità calcistiche in maniera talmente spudorata che quasi per dispetto si sono dimenticati di dargli tutto il resto. Forma fisica, salute, anche sportività, perché oltre al Pibe anche la mano sinistra, quella de Dios, è entrata nella leggenda per quel tiro mancino (eh) giocato a Shilton nel 1986 subito prima di segnare il gol più bello e famoso della storia. L’avesse fatto un altro, chiunque altro, l’avrebbero coperto di pece e piume come i bari nel Far West. Ha reso Napoli una città pluriscudettata, ha vinto un mondiale da solo e un altro quasi, dopo avere irriso Zenga ai rigori al San Paolo in semifinale. Se avesse avuto anche l’atteggiamento e la testa del grande professionista, forse avremmo un parametro più alto per valutare il più grande di tutti i tempi. Più probabilmente, non avremmo parlato di lui così a lungo e non ne staremmo parlando tuttora. Entrato nel mito, incredibilmente, nello stesso giorno in cui se ne andò George Best.

Leo Messi

C’è sempre di mezzo l’Argentina e lo stesso piede, solo che il primo le finali con la nazionale le vinceva e il secondo no. Che sia il piede mancino più bello e spudoratamente onnipotente di questa epoca non è nemmeno in discussione, se sia superiore al suo predecessore è una discussione che non finirà mai. Se Guardiola con il Barcellona ha cambiato la concezione stessa del calcio nel nuovo millennio, molti crediti li deve a lui e al suo baricentro e controllo di palla che non hanno nessuna spiegazione logica. Tipo quella storia del volo e del calabrone, Messi per la sua struttura fisica certe cose con il pallone non potrebbe farle, però lui non lo sa e le fa lo stesso. Che poi gli riescano in maniera perfetta solo con la maglia blaugrana addosso è un’altra gustosa digressione.

Gigi Riva

C’è talmente riverenza e suggestione al solo farne il nome che si fa quasi torto a parlarne senza essere sardi (e infatti il paragrafo meritava di essere scritto da Luca Pisanu, che cantò per noi lo scudetto del Cagliari, però è attualmente impegnato a suonare blues nelle Umbrie). L’uomo, il tuono, il rombo di tuono che ha trasformato la Sardegna in una nazione e il Cagliari in una missione per conto di Dio molto prima dei Blues Brothers, tre volte capocannoniere, ginocchia immolate alla causa della nazionale quando immolarsi era un concetto nemmeno di moda ma equiparato ai doveri quotidiani, uno scudetto e l’emblema supremo e nostalgico del calcio in bianco e nero.

Roberto Carlos

Eccone uno che col destro non sapeva nemmeno che farci se non posarlo a terra. E anche uno dei mancini simbolo di un ponte colorato e magico, quello che congiunse il calcio dorato degli anni ottanta con quello iperconnesso degli anni duemila. Terzino che fece alcune cose pregevoli, ma non le migliori, all’Inter nel 1995-96, poi al Real Madrid dai multiformi nomi e nessuno che lo ricordi per una giocata nella propria metà campo anche se di mestiere faceva il terzino. Roberto Carlos è sinonimo di due cose soltanto. Punizioni a tre dita e rincorsa da casa sua. Mai più viste né replicabili con la stessa combinazione. Infatti dite la verità, voi che giocaste a Winning Eleven nel 1999 e a tutti i giochi di calcio che vennero dopo. Prendevate il Brasile o il Real Madrid, vi mettevate a palleggiare sulla trequarti avversaria e provavate disperatamente a farvi fare fallo. Il resto non c’è nemmeno bisogno di raccontarlo.

Rivaldo

C’è sempre di mezzo il Barcellona in questa storia, così come c’è anche di mezzo Milano ma dalla sponda rossonera. Rivaldo soprattutto nella sua esperienza spagnola è stato un pallone d’oro direttamente uscito dalla fantasia dei programmatori di Street Fighter II. A volte elastico come Dhalsim (e se gli togliete i capelli è uguale), quasi sempre tecnico e acrobatico come Sagat (e se a Sagat aggiungete i capelli avrete Rivaldo), maestro di tecnica come Ryu e a tratti, inaspettatamente, potente come Balrog. Gli anni novanta non ci mancheranno mai abbastanza.

Arjen Robben

C’è del romanticismo esasperato, qui. La faccia rude di un calcio che fu, la stempiatura tipica di quando i calciatori sembravano molto più vecchi della loro età pure se siamo in pieno nuovo millennio, il passaporto olandese che naturalmente per prassi vuole una finale persa ai mondiali nel modo più doloroso possibile, cioè ai supplementari e per colpa di un suo gol sbagliato praticamente a porta vuota prima della puntura di Iniesta (e anche un rigore sbagliato davanti ai tifosi di casa nella finale di Champions League del 2012 persa contro il Chelsea in una finale che doveva andare talmente in quel modo che qualcuno già durante i tempi regolamentari disse ‘svegliatemi quando iniziano i rigori’), l’inesplicabile brutalità delle leggi della fisica. Era il sogno proibito di tutti i mancini che non ce l’hanno fatta: fare sempre la stessa azione, cioè partire dall’esterno destro, accentrarsi e colpire con il mancino a giro o di potenza, che i difensori lo sapevano dalle elementari cosa stava per succedere, per l’ennesima volta, eppure non riuscivano a fermarlo. Puro genio della mancinità in tutto il suo splendore.

Sinisa Mihajlovic

L’uomo dalle mille vite e non è un modo di dire, viste le vicende recenti. Dalla Stella Rossa vincente in Coppa dei Campioni a Bari nel 1991 a una stagione in giallorosso a Roma nel 1992-93 in cui fece solo intuire certe doti balistiche fino all’esplosione con la maglia della Lazio, poi Sampdoria, Inter e mille altre avventure da giocatore e allenatore. Nessuno ha mai potuto stabilire se fosse un difensore o un centrocampista, si sapeva solo che se c’era una punizione dai 35 metri in giù, era roba sua. Ed era gol. Con 96 reti in carriera, stiamo parlando di pennellate su tela a profusione. Reprise degli anni novanta che non ci mancheranno mai abbastanza.

Gheorghe Hagi

Ah, si entra nel mistico. Del resto se cominciano a chiamarti il Maradona dei Carpazi fin da quando non ti fai ancora la barba ci sarà un motivo. Il motivo è che Hagi vedeva il gioco dove non c’era e a volte faceva finire quello che c’era, tipo quando spianò una caviglia a Conte agli Europei del 2000 in un momento di folle nonsense. Visto anche in Italia a Brescia, visto con Real Madrid e Barcellona, è l’esempio di giocatore di un’epoca che è stata appunto vista ma non sempre completamente vissuta. Se ne avete, Youtube vi colmerà molte lacune e vi allieterà diversi quarti d’ora quando vi viene il prurito di sapere cosa si può fare con un pallone e un piede sinistro. Non necessariamente per vincere, giusto per stupire.

Fernando Redondo

C’è dell’altra Argentina qui, e c’è dell’altro materiale arrivato a Milano sponda rossonera quando la data di scadenza sul prodotto era ormai inevitabilmente superata. Fernando Redondo senti come appoggia bene, sai che anche in un nome c’è il suo destino e non c’è nemmeno bisogno di specificare la citazione. Il cognome suona musicale proprio come i suoi tocchi di palla, ridondante e non è un caso, il nome è un omaggio a quella specie iberica che fece grande il Sudamerica non prima di averla ricoperta di polvere da sparo, c’è anche una vena di malinconia se leggete nome e cognome tuttiattaccati e in effetti senza tutti quegli infortuni, vai a sapere, come Julian Ross. Poi c’è quella storiella del gioco di prestigio con il colpo di tacco-assist sulla linea di fondo a Old Trafford contro il Manchester United, tutto fatto col mancino. Anche per questa vi si rimanda a Youtube.

Adriano

Una volta questo ragazzino brasiliano, era nel 2001 e la Roma aveva appena vinto lo scudetto, da quasi sconosciuto spaccò la porta del Real Madrid con una fucilata di sinistro nel precampionato, qualcuno in tribuna pescò il nome sulla lista dei giocatori dell’Inter e in un guizzo di classicismo non corroborato da originalità gli venne la banale idea di soprannominarlo Imperatore. Tipo che se si fosse chiamato Elvis oggi lo conosceremmo come il Re. Invece in una commistione irrisolvibile di potenza e rimpianti quello che poteva essere, e sarebbe stato, il piede sinistro più devastante del calcio moderno si perse in un carattere troppo fragile, mischiato e pure mescolato con saudade, samba, festini e qualche sostanza psicotropa di troppo. Se James Bond l’avesse conosciuto prima, il Vesper Martini l’avrebbe dedicato a lui.

Mohamed Salah

Adesso non per fare quelli che come al solito fanno le facili assonanze tra i tratti somatici e le professioni, però a guardare Salah in faccia vi viene proprio in mente il pizzaiolo che ve ne fa una prosciutto e funghi il sabato sera a Trastevere. Questo, da fermo. In movimento potreste andare sull’enciclopedia De Agostini, cancellare tutta la definizione di progressione e sostituirla direttamente con la foto sua. Il piede è quello e lo sapete, la rapidità è inedita anche nel calcio ipermuscolare di oggi, il controllo di palla uguale. Se avesse una percentuale di realizzazione superiore, non sarebbe eretico metterlo sul piedistallo insieme a quegli altri due che si spartiscono i palloni d’oro ad anni alterni. Visto con due maglie italiane, Fiorentina e Roma, andava dichiarato patrimonio mondiale dell’Unesco e messo a dormire dentro il Vaticano, altro che Trigoria. E invece.

Ryan Giggs

Una specie di Salah vent’anni prima, solo che nel 1993 rispetto al 2013 le cose erano diverse e le azioni del Manchester United se eri fortunato le vedevi su Tele +2, altrimenti quando capitava in mezzo alla settimana nella trasmissioni sportive della Rai che trattavano il calcio europeo. Eppure questo mancino gallese faceva cose a una velocità tale che quasi non si abbinavano stilisticamente con il calcio rude e lento in voga in Premier League in quegli anni. Pareva un insulto all’arte plastica del movimento, per come si muoveva, farlo stare in mezzo a altri 21 che al suo confronto sembravano fermi. In molti lo immaginammo in qualche palcoscenico più pregiato molto presto, invece 963 presenze e 169 gol con la maglia dei Red Devils in una carriera incredibile, irripetibile e monogama. Solo sul campo. Fuori, facciamo che c’era bisogno di un necessario contrappasso, non necessariamente giusto.

Rivelino

Per finire, altri due tiri mancini ai più nostalgici. Il primo naturalmente non può che provenire da quella terra fatata, ma all’epoca ancora esotica e inesplorata dal punto di vista del tubo catodico, che è il Brasile. L’aura magica di quella nazionale che vinse nel 1970 resiste tuttora e se l’Italia che ne prese quattro in finale fu accolta a colpi di pomodoro al ritorno dal Messico, la storia ha provveduto a ristabilire le giuste proporzioni perché quella che vinse la coppa Rimet definitivamente era una squadra semplicemente imbattibile. Là davanti quello col dieci e vabbè, capitolo chiuso, ma a sinistra ad alimentarlo c’era questo coi baffi che correva come un dannato, poteva tenere un master sul dribbling e un seminario su fantasia e colpo d’occhio, a tempo perso tirava pure le punizioni. Sempre in quel mondiale ce n’è una contro la Cecoslovacchia di cui ancora stanno cercando il pallone. Squadra più forte di tutti i tempi, dice. Magari ne parliamo in un’altra puntata.

Mario Corso

C’è ancora più nostalgia e ancora più bianco e nero, o per meglio dire nerazzurro. Anche qua si prese a chiamarlo il piede sinistro di Dio e doveva essere vero perché quello lo vedevi dal vivo, allo stadio, solo raramente in televisione. Ma tanto bastava perché nei suoi lanci c’era l’ordine divino che mette a posto il caos primordiale e soprattutto c’erano quelle punizioni che si alzavano, il portiere si metteva comodo a sognare la rimessa dal fondo e non aveva neanche finito di pensarlo che se la ritrovava alle spalle. A foglia morta, la chiamavano. Ora non si usa più, ma un tempo quando iniziavi a giocare a pallone e battevi una punizione, ti dicevano ‘tirala a foglia morta!’. Un altro mancino che aveva inventato un brand prima ancora che il mondo sapesse che cosa significasse brand.

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