Il mio viaggio a New York: da Larry a Isaiah, il DNA eccome se esiste…

Nove giorni tra New York e Boston, cinque partite NBA e una di NCAA con Federico Mussini in campo. Ve la do io l'America.

Basket NBA. Il mio diario.

E’ la mia settima volta a New York. Ed è sempre un’emozione difficile da raccontare, a cominciare dalla skyline dorata che sbirci atterrando a JFK. 

Qui sono venuto in vacanza, la prima volta nel 1997 da turista. Poi per lavoro o con una formula ibrida, come stavolta.

Qui ho visto giocare Pat Ewing e Michael Jordan, Allan Iverson e Kobe Bryant, Lebron James e Ray Allen. Sempre da privilegiato, ovvero dalla tribuna stampa. Anche se poi gli accrediti “International” vengono relegati in zone dell’Arena che definire “piccionaia” è generoso perché sono gli stessi piccioni a lamentarsi della distanza che ti separa dal campo.

Il fascino di una partita NBA rimane intatto negli anni, anche se cambiano i protagonisti, le storie, la tecnologia della quale l’evento si nutre. Ho sempre e solo visto partite di stagione regolare, spesso segnate da un coefficiente agonistico rivedibile e quindi spesso mi sono ritrovato a guardare oltre, a considerare quanto accadeva in campo un corollario.

Un po’ come fa lo spettatore medio statunitense, che sul -2 a 3 minuti dalla fine si alza e si va a comprare hamburger e patatine. Questo è. E credo fermamente che l’aspetto meno interessante di una partita NBA sia la pallacanestro. Ve lo dico da folle amante del gioco, a tutti i livelli.

Basket NBA. Il mio diario. Sono atterrato a New York mercoledì pomeriggio e con le residue energie rimaste ho trascinato i miei talenti a Brooklyn, dove i Nets hanno ospitato i Lakers, o quel che ne resta. Partita non irresistibile, mettiamola così, ma la presenza di Adriana Lima in parterre (i primi dAdriana-Lima-sits-front-row-at-Brooklyn-Nets-game-in-New-York-5ue quarti, ovvio, giusto il tempo di farsi immortalare all’intervallo) ha diradato i miei sbadigli.
Insieme al sorriso di John McEnroe, a bordo campo insieme alla famiglia. Brividi (you cannot be serious).

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L’Arena dei Nets è una delle più recenti, e tra quelle che ho visto la più tecnologica. Maxischermi curvi in 4k, accessi comodi e user-friendly, possibilità di fare qualsiasi cosa durante la partita. Sì, anche tagliarsi i capelli a metà terzo quarto.

 

 

 

La schiacciata di Larry Nance jr, oltre a confermare che il DNA non è una leggenda
metropolitana, ha scosso un po’ tutti i presenti.

 

Alla fine l’hanno spuntata i Nets e la partita è stata anche godibile. Sono tornato a casa a mezzanotte ma per me erano le sei di mattina ed ero sveglio da 26 ore consecutive. A 49 anni. Un relitto vero. Ma ne è valsa la pena, e non solo per la scollatura di Adriana.

Basket NBA. Il mio diario. La mattina successiva treno per Boston, -16 gradi all’arrivo a South Station. In serata Celtics-Hornets, in campo anche Marco Belinelli e dall’altra parte Isaiah Thomas, sempre a conferma del discorso sul DNA. Impressionante la macchina da guerra che accompagna ognuna delle partite NBA, anche la meno attesa.

Lo si nota arrivando in campo passando dalla zona che circonda il parquet. Centinaia di persone perfettamente sincronizzate per accompagnare la partita senza concederti un attimo di sosta. Non puoi fermarti. Devi sorridere. Mangiare. Ballare. Strillare.

Cheerleader, giocolieri, nani, ballerine, eroi di guerra, tifosi, cameraman, acrobati, star di Hollywood. Tutti insieme. Tutti parte dello stesso copione: non si sbaglia di un centimetro, di un secondo. Più di 100 persone lavorano mediamente agli eventi collaterali di una partita NBA, un esercito gioioso che non conosce pause e che combatte 82 volte a stagione regolare.

Vedere tutto quel verde all’interno di quel che fu il Boston Garden mi ha fatto effetto, lo riconosco, anche se ho smesso di provare simpatia per i Celtics nel 1983. La partita? Belinelli ne gioca una normale, Charlotte ci prova ma poi si arrende alle magie di Isaiah. In parterre non c’è Michael Jordan, proprietario degli Hornets, o quantomeno non mi passa a salutare. Forse perché sono a circa 400 metri sul livello del mare sopra di lui.

All’inizio della partita chiedo a una signora delle pulizie di indicarmi la Press Room, la Sala Stampa: gentilissima, mi chiede di seguirla e poi sorridente mi apre la porta di una toilette, anche detta Rest Room.

Devo migliorare il mio inglese, oltre a scandire meglio. Devo.

Ma il viaggio è ancora lungo, c’è tanto basket da vedere e tanti cessi da vedere.

Vi racconterò tutto.