Perché l’addio di Totti non ha niente (o poco) a che fare con il calcio

In venticinque anni il mondo è cambiato insieme a Totti: dalla moda alla musica alla tecnologia, ecco perché l'addio del numero 10 non ha niente a che fare con il calcio

Nonostante si sia trattato dell’addio più lungo, anticipato, chiacchierato, della storia del calcio. Nonostante ci sia stato tutto il tempo per prepararsi e prepararlo. Nonostante quel giorno che prima o poi doveva arrivare sia arrivato davvero cogliendo tutti comunque impreparati. Nonostante questo, c’era ancora qualcosa di disturbante nell’ultima partita giocata da Francesco Totti con la maglia della Roma. Una tessera fuori posto. Un rumore di fondo che nemmeno il boato di 70000 persone in lacrime all’Olimpico è riuscito a coprire.

Ci ho pensato a lungo e credo, almeno parzialmente, di essere riuscito a capire. E’ che l’addio di Francesco Totti non ha niente a che fare con il calcio. O molto poco. Insomma qui non stiamo parlando di un calciatore che smette nel pieno del suo vigore tecnico e atletico, all’improvviso, come successe a Platini. Non stiamo parlando di una carriera interrotta dagli infortuni. Parliamo di un quarantenne che negli ultimi anni ha giocato poco, sempre meno, il cui impatto sulla sua squadra è stato progressivamente sempre più marginale rispetto ai risultati della Roma in campo e in classifica. Non parliamo di un calciatore che smette. Ché quello, anche in una città come la capitale, non avrebbe fatto questo effetto. Parliamo di un pezzo della nostra vita che finisce. E questo è enormemente più difficile da metabolizzare rispetto a una maglia numero 10 che va in soffitta e a un pallone che smette di finire dentro una porta.

Parliamo di un pezzo della nostra vita che in termini numerici è enorme. Venticinque anni. Un quarto di secolo. E’ circa un terzo della vita media di una persona occidentale. Quando un personaggio pubblico ti accompagna così a lungo smette di essere la propria identità, quella di calciatore, e inizia a essere un’icona della sua epoca. Inizia a segnare i tempi, i ritmi con la sua presenza, fuori dal campo come dentro, influisce senza che tu te ne renda conto su tanti piccoli elementi di quotidianità che unisci tra loro solo quando arrivano i titoli di coda e ti fai un’idea più precisa della trama. Venticinque anni sono il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Dalla maturità alla vecchiaia. Dalla floridità professionale alla pensione. Ognuno ha il proprio tempo scandito da Totti, ed è un tempo talmente ampio che le persone le trasforma.

Per questo il pomeriggio pagano dell’Olimpico e il suo rito di saluto a Totti mi hanno ricordato piazza San Pietro la sera in cui morì Giovanni Paolo II. Il cui pontificato era durato 27 anni, appena due in più di quello di Totti. Ero lì vicino per caso ed entrammo tutti in piazza appena si sparse la notizia. Quasi tutti piangevano, come all’Olimpico. Ed era sempre una questione di fede, anche se non calcistica, come all’Olimpico. Ma piangi per la morte di un Papa, per la fine di una carriera sportiva, o piangi per quello che due personaggi del genere hanno rappresentato? Il confine è troppo sottile per essere individuato. Entrambi, con la loro presenza durata oltre un quarto di secolo, sono stati semplicemente la quotidianità di ognuno di noi.

Quotidianità significa quella sensazione di benessere e tranquillità nella quale ritrovi ciò che c’era il giorno prima senza doverlo cercare. Totti dal 1993 in avanti è sempre stato dentro un campo di calcio, mica avevi bisogno di trovarlo altrove. Anche se poi altrove ce lo trovavi. Mentre io, noi, i ventenni del 2000 brutalizzati da Italia ’90, diventavamo grandi. Il Totti che smette di essere promessa brillante e diventa capitano della Roma aveva i capelli biondi e lunghi e gli occhi azzurri, somigliava un po’ a Kurt Cobain. Non è casuale. Era il decennio del grunge, era Black Hole Sun dei Soundgarden, era Chris Cornell. Uno che si è tolto la vita pochi giorni fa e, ancora, il senso di vuoto è simile a quello dell’addio di Totti proprio perché insieme a lui finisce un decennio, un’epoca, un senso. Un ricordo.

Diventiamo adulti, comunque più grandi, e il passato ci sembra sempre un posto più bello dove vivere rispetto al presente. E’ per questo che quasi ogni giorno, anche per pochi minuti, è lì che torniamo ad abitare insieme ai vecchi ricordi. Totti li attraversa quasi tutti, e sempre nella stessa veste. Prendi un frammento nel sacchetto della memoria come si fa coi numeri della tombola. Il cucchiaio a Van der Sar agli Europei del 2000? Sembra ieri, il 2000. Eppure uno nato nel 2000 ha appena segnato il suo primo gol in serie A. Eppure Antonio Conte, che con una rovesciata inaugurò quel torneo battendo la Turchia, nel frattempo ha vinto quattro campionati da allenatore. Eppure se tuo figlio fosse nato nel 2000 oggi sarebbe al terzo anno di liceo. Noi eravamo piccoli quando Totti cominciava, andavamo a prendere i cornetti caldi a un’ora tarda della notte quando vinceva lo scudetto, le bombe delle sei non facevano male come diceva Venditti e non si vedevano sull’addome. Dalle medie al liceo all’università alla vita professionale e Totti era sempre lì su un campo di calcio.

Adesso le bombe delle sei si vedono sull’addome come le rughe sulla fronte e come un sacco di altre cose che ieri non erano importanti. E Totti continuava a stare su quel campo di calcio. Dalle figurine Panini ai nomi dei giocatori cercati su Wikipedia. Dai walkman a Napster a Youtube. Dai capelli lunghi raccolti da una fascia a quelli corti con la riga di lato e la barbetta incolta. Dalle telefonate nelle cabine della Sip agli smartphone passando dai modem a 24 kbit/s alla fibra. Dai primi baci innocenti sulle note dei Rem ai fiocchi azzurri e rosa sulla porta di casa, e più di qualcuno agli eredi ha dato nomi esotici perché Chanel e Isabel facevano tendenza. Totti era sempre lì. Su. Un. Campo. Di. Calcio.

C’è stato abbastanza a lungo da generare quella sensazione inebriante e fallace, l’illusione travestita da certezza che ci sarebbe stato per sempre. E non è solo questo. E’ che lui, forza e limite allo stesso tempo, ha sempre avuto un lato viscerale da condividere con noi comuni mortali. Rivera e Riva, Zoff e Paolo Rossi, Baresi e Maldini e Del Piero no. Quelli erano divinità celestiali, quasi algide, intoccabili, intangibili. Totti è una divinità classica, omerica, incazzosa. Era il più forte a giocare a pallone, ma prendeva per il culo i laziali. Noi prendevamo in giro i nostri compagni di scuola, o i nostri compagni di squadra meno forti. Totti ogni tanto ha sputato e dato calci agli avversari e reagito in maniera scomposta alle sostituzioni. Noi pure, diciamo la verità, abbiamo dato una spinta a un avversario con l’arbitro girato dall’altra parte giocando tra i Giovanissimi Regionali nelle gelide mattine di novembre o ci siamo incazzati con un compagno che non ci passava la palla nelle partite tra amici del giovedì sera. Totti non è mai sembrato sopra agli altri, anche se c’è stato più degli altri.

E’ questo mix infarcito di romanità a essere fatale. Totti nella terra di mezzo, e anche in quella di sotto, ci è sceso un sacco di volte. E per un romano e romanista questa è una qualità. La capitale è piena di politici e uomini d’affari ma è fatta da gente ruvida, nella memoria conserva i nomi dei gladiatori che si sbucciano le ginocchia nella terra del Colosseo, non quelli che frequentano i marmi pregiati del senato, come diceva un famoso film di Ridley Scott. Anche per questo si fatica a vederlo smettere più di altri. Perché più di altri è maglia e pantaloncini, lui non ci si vede, noi non ce lo vediamo in giacca e cravatta. E’ una cosa che da fuori non si può capire e fa storcere la bocca. Perché Totti e Roma, nell’epoca della connessione permanente, sono un dispositivo Android mentre il resto dell’Italia è Apple. Gli uni e gli altri fanno le stesse cose, più o meno, ma il loro codice di programmazione è incompatibile. Totti c’è stato talmente tanto da diventare un paradosso. L’enorme coperta di Linus sotto la quale quasi tutti in questa città almeno una volta si sono rifugiati. La città eterna che non vuole padroni e che adesso non può fare a meno di chi l’ha avuta ai suoi piedi per venticinque anni. Una distorsione enorme della realtà, che ha conseguenze anche su un finale di carriera diluito più del necessario. La città che ha avuto sette re ufficiali, nove ufficiosi e gli ultimi due non casualmente sono stati calciatori. Falcao e Totti. Il numero 5 e il numero 10, l’uno doppio dell’altro in un’eredità matematicamente perfetta. E’ normale. Adesso che quella coperta non c’è più senti freddo. E non solo perché in venticinque anni il tuo metabolismo è cambiato.

E’ cambiato il mondo, sono crollate le torri gemelle e l’11 settembre 2001 Totti era in campo all’Olimpico contro il Real Madrid in una partita che non si doveva giocare. Totti che al Real Madrid non c’è andato. Totti che è egoista. Sì, egoista. Il perché l’ha spiegato perfettamente De Rossi, l’unico che può capirlo e decifrarlo: ‘Se sono rimasto qui non è per generosità, è per egoismo. So che le cose che posso avere a Roma non posso averle altrove’. Ed è una spiegazione perfetta. Io lo capisco. Li capisco. Non me ne sono mai andato da questa città perché senza di lei non riuscirei a vivere altrettanto bene. E fuori dal raccordo ti dicono che andandotene puoi raccogliere coppe e soddisfazioni e palloni d’oro. E tu, che invece ci abiti, sai che il tuo metro di valori non si compone da un dentro ma da un fuori. Non è composto da quello che c’è dentro la bacheca dei trofei, ma dal panorama che vedi fuori dalla finestra giorno dopo giorno. E’ limite e grandezza in un nodo che non può essere scisso. E’ il groppo in gola dei 70000 dell’Olimpico.

Quanto di tutto questo ha a che fare con il calcio, con il campo, con il pallone, con gli scudetti, con i meriti o le colpe di Spalletti? Zero. Ha a che fare con il tempo che passa e con un incantesimo che finisce. Con una magia riuscita fino al 28 maggio, anche se sempre più compressa in piccole dosi. Avrebbe potuto smettere prima, ma l’incantesimo funzionava lo stesso anche solo a vederlo in panchina. Bastavano dieci minuti di Totti in campo a fine partita, una palla geniale data a occhi chiusi, per sapere che il mondo era ancora come l’avevi lasciato prima di quei novanta minuti. Impareremo che il mondo tutto sommato è uguale anche dopo l’ultima partita, perché è così che funziona. Ma ci vuole tempo per metabolizzarlo. Ed è la stessa paura di cui ha parlato il numero 10 nell’ultimo suo discorso davanti ai suoi tifosi. Diventiamo adulti quando il sogno finisce. Quando l’ultimo elemento comune che ti lega ai ricordi più belli e spensierati, un quarto di secolo vissuto insieme a qualcuno che trovavi sempre nello stesso posto senza cercarlo, svanisce.