Tour de France 2019, vince Bernal, stravince Alaphilippe, trionfa la natura

Il Tour de France 2019 è di Bernal e della Ineos, ma i veri vincitori sono Alaphilippe e la natura con i suoi eventi estremi che l'uomo non può controllare

Certo, Egan Bernal. Il primo vincitore colombiano nella storia del Tour de France. A 22 anni, età nella quale in sella alla bici non sei giovane, sei praticamente un neonato. Vincere, peraltro in certi momenti dominare, quando la tua storia di ciclista è appena cominciata è stoffa di pochi. Di Sagan, per esempio, che alla stessa età iniziava la collezione di maglie verdi che ieri ha portato dentro i libri di storia. Nessuno ne ha indossate quante lui. Bernal ha tutto di sudamericano, somaticamente, con quel naso che ricorda il profilo Ande, con quel taglio degli occhi che ha sempre un lampo di tristezza che ricorda la sofferenza della salita, ma che di sudamericano ciclisticamente ha poco. Non va a intermittenza come Quintana, va forte anche a cronometro e non solo in altura, è capace di mettere in seconda fila Geraint Thomas che aveva vinto lo scorso anno. E’ cresciuto in Italia e non è un dettaglio secondario. Da noi si impara come fare, oltre che come stare in bici.

Certo, la Ineos. Hanno cambiato nome, hanno cambiato colori, hanno aggiornato le Dogma della Pinarello e piazzato due uomini sui due gradini più alti del podio. Sembravano in difficoltà, dicevano che avrebbero abdicato, che senza Froome era iniziato il declino, invece hanno soltanto ottimizzato il metodo. Non hanno avuto bisogno di dominare la corsa per tre settimana, bastava farlo sulle Alpi. Sarebbe stato diverso con Dumoulin, con Fuglsang in forma, con un Nibali fresco e non spremuto dal giro e comunque capace di firmare la penultima tappa, ma la ragione è sempre di chi partecipa. Dal 2012 in avanti, solo lo Squalo ha interrotto la tirannia.

Ma dentro una storia di scatole cinesi, che contengono il vincitore inedito all’interno della squadra vincitrice seriale, si intrecciano i veri trionfatori del Tour de France 2019. Si intrecciano non è un modo di dire, perché vanno messi insieme per capire. Alaphilippe e la natura, nell’accezione più brutale del termine e che solo nel ciclismo diviene totalmente comprensibile. Uno che vince le classiche di primavera da cannibale non può vincere il Tour, non dovrebbe, non potrebbe resistere anche a cronometro, figuriamoci vincerla, dovrebbe staccarsi sulle prime montagne, non sulle ultime.

C’è questo enorme problema, assolutamente irrisolvibile, del ciclismo. Che si fa amare, ma non ti fa capire mai completamente la fatica, le difficoltà, le insidie di tre settimane e oltre 3000 km da pedalare. Non le fa capire nemmeno ai cicloamatori più evoluti, che fanno 10000 km e 100000 metri di dislivello all’anno, e per farli ci vuole un sacco di tempo e di voglia, mentre i professionisti fanno un terzo della distanza e la metà di quel dislivello in ventuno giorni, a medie folli, con la pressione del risultato, con la necessità di stare a ruota dei più forti del mondo. E lo fanno sembrare come se tutto sommato non fosse faticoso. Quello che ha fatto Alaphilippe, un uomo che ha rischiato di vincere il Tour senza essere uomo da Tour, è quasi più epico che sportivo, è certamente più leggendario che agonistico, perché sfida le leggi della natura e quasi le piega.

Poi la natura non si fa piegare, perché lo abbiamo detto prima. Di tutti gli sport, il ciclismo è quello che ti fa vivere sulla pelle ogni sfumatura di ciò che noi crediamo di dominare e che invece comanda, fa e disfa, a suo piacimento. Stare su una bicicletta nel caldo infernale e improvvisamente ritrovarsi su una montagna nella nebbia, in mezzo al freddo che ti spacca le mani, a volte tra due strati di neve. E il vento. Il vento davvero non si può capire, se non ci sei mai rimbalzato contro, se non hai mai provato su una bici da corsa ad affrontarlo di faccia e a esserne respinto nonostante i tuoi sforzi. Alaphilippe ha perso la maglia gialla che probabilmente avrebbe perso comunque in una tappa accorciata a causa di una tempesta di grandine e di una frana in Val d’Isere. Qualcuno ha fatto polemica su questa scelta. Qui, da cicloamatori, abbiamo immaginato cosa sarebbe successo se i professionisti fossero arrivati dieci minuti prima in mezzo alla bufera. O se si fosse scatenata dieci minuti dopo. In quella frana ci sarebbero finiti dentro. E siccome è l’unico sport che sfida apertamente la natura nei suoi territori primari, la montagna, i boschi, i dirupi, gli alberi, il vento, prima o poi dovremo fare i conti col fatto che un giorno gli eventi estremi di un clima impazzito potrebbero fare pagare un prezzo a chi va in bici per professione molto più alto dell’interrompere una tappa o di accorciare quella successiva. All’interno del Tour più divertente degli ultimi anni, sospendere quella tappa è stata la decisione migliore che gli organizzatori potessero prendere.