The Importance of Being Cricket

Il mio ricordo personale legato ai Mondiali di calcio 1982 della cui finale ricorre oggi l'anniversario

Volevo sottrarmi al rito collettivo, rivivere in splendid isolation quella magica serata di 35 anni anni fa quando l’Italia vinse il suo terzo mondiale 44 anni dopo il secondo. Ecco, l’ho fatto. Scrivere cose come ‘magica serata’ produce effetti simili alla ricotta scaduta ingerita in piena estate, magari sotto l’ombrellone in una spiaggia affollata. Conduce quasi inevitabilmente a fragorosi smottamenti inguinali con tutte le problematiche logistiche del caso. Meglio dar subito fiato, se l’immagine non vi turba troppo, alle inevitabili flatulenze e correre verso la toilette pregando qualsiasi divinità. Prima o poi passa.

Non si tratta di voler sminuire, figurarsi, solo di rispettare il proprio tempo e quello di chi legge evitando l’ovvio, il letto e riletto. Che cosa c’è che non sapete? Preferisco correre altri rischi.

Il mio ricordo più vivo, più che alla serata in se, è relativo a quel che successe dopo. Trascorsi parte del mese di luglio in un paesino sul mare, nel Kent, chiamato Westbrook. Seguivo un corso di inglese e alloggiavo presso una famiglia del luogo.

La Cool Britannia blariana era lontana, stavamo infatti vivendo gli anni di Margaret Thatcher, the Iron Lady. Era iniziata la lotta contro indici di disoccupazione e inflazione a doppia cifra. Si mangiava da schifo, e intendo veramente da schifo. Ricordo ancora con orrore il packed lunch che ci veniva dato in occasione delle gite a Londra o a Canterbury. Nemmeno in caserma ho ingerito roba peggiore.

Il fatto che la nazionale italiana di calcio fosse campione del mondo mi sembrava una cosa enorme. Il trovarmi all’estero acuiva questa sensazione. Percepivo lo sguardo degli altri come diverso da prima. Probabilmente perché non avevo grande esperienza, non ero abituato come i ragazzi di oggi al continuo confronto con coetanei di altre nazioni.

A livello emotivo, comunque, la vittoria del 2006 non è stata nulla al confronto.

Nella scuola che frequentavo c’erano molti studenti arabi. Volevano fare amicizia con gli italiani proprio per via del calcio. Li ricordo molto gentili.

Per loro era complicato pronunciare correttamente il mio nome. Suonava come ‘Polo’ che per qualche arcano mistero divenne infine ‘Cricket’.

Non è da tutti chiamarsi Cricket, che poi sarebbe Polo, per aver vinto, seppur indirettamente, una partita di calcio. Il nomignolo durò per qualche settimana sul campo e per diversi mesi sulla carta di lettere e cartoline ricevute dai compagni di quella vacanza-studio nel sud dell’Inghilterra. Non solo dagli arabi, anche se ricordo Ashraf, un piccoletto appassionatissimo di pallone, ma anche dagli italiani. Ero Cricket, per tutti.