Marco Pantani, uomo simbolo delle salite e delle discese della vita

Le cadute, le salite, la discesa e la fine di Marco Pantani, uomo simbolo degli alti e bassi di un paese contraddittorio

Ecco, parte Pantani. Oppure, Pantani sul Galibier. Sono sempre tre parole, ma epiche, granitiche, che immortalano un momento non solo sportivo. C’è in mezzo la storia, l’Italia degli anni Novanta, ricordi e profumi di un decennio che viene celebrato più dei suoi stessi meriti e rimpianto meno di quanto meriterebbe. Quel 27 luglio 1998 c’era gente in ufficio, per strada o sbracata sulla spiaggia nel bel mezzo del pomeriggio, come era logico che fosse nel momento più caldo dell’anno, che dimenticando il mare e il sole e tutti gli altri impegni si precipitò velocemente a casa, o davanti al primo televisore disponibile, quando venne a sapere di quelle tre parole. Di Pantani che parte, o di Pantani che era partito sul Galibier. L’incipit di Adriano De Zan è per il ciclismo quello che furono per il calcio i tre ‘campioni del mondo’ pronunciati da Martellini nel 1982 nella notte di Madrid. L’apice, il punto più alto di un campione. Proprio come la cima di una salita. Il picco che rimane impresso nella memoria e dopo il quale c’è solo una cosa. Inesorabilmente, immutabilmente. La discesa.

Il simbolo

Ecco perché il 13 gennaio, che è il giorno in cui Pantani nacque nel 1970 in un’Italia ancora scossa da piazza Fontana e non ancora consapevole degli anni di piombo che sarebbero venuti, è l’occasione per celebrare i cinquant’anni che avrebbe avuto un uomo che non c’è più. E che continua a vivere dentro una leggenda che, appunto, è uscita dal proprio ambito sportivo per legarsi in modo più ampio ai momenti, alle fasi, alle esaltazioni e alle contraddizioni di una nazione alla quale ha dato tutto, dalla quale tutto ha avuto e tutto gli è stato tolto nell’arco di undici mesi ed è una parabola, perfetta e spietata, di quella grande metafora della vita che più di ogni altro sport è il ciclismo. D’altra parte Pantani sembra essere stato disegnato e sviluppato apposta per confermarlo.

Lo scalatore

Uno che diventa il più grande scalatore nella storia del ciclismo che nasce in una terra piatta e sabbiosa come Cesenatico, per esempio, è il simbolo dell’imprevisto e dell’imprevedibile che prendono il sopravvento sulle tradizioni, sugli stereotipi e sui luoghi comuni. Pantani non poteva diventare niente di diverso da quello che è stato, un po’ per caratteristiche congenite interiori, un battito cardiaco e una capacità polmonare fuori dal comune, un po’ per tratti somatici che ricordano proprio tutto ciò che è la vita, una salita continua, scorbutica, sgraziata, nella quale ogni tanto puoi alzare le braccia a esultare, ma costellata di smorfie e fatica. In fondo il suo era un profilo tutt’altro che aerodinamico, parola che nel ciclismo all’epoca non era così di moda come oggi, ma non serviva. Quando lo si conobbe davvero, nelle due tappe consecutive vinte al Giro del 1994, sembrava pure uno arrivato in ritardo all’appuntamento con gli anni Novanta e ancora immerso nel decennio precedente, pochi capelli nonostante la giovane età e quella divisa jeansata della Carrera che faceva molto paninaro post litteram. Questo andava forte, più forte di tutti in salita, e tutti pensavano che il suo percorso verso il successo sarebbe stato lineare, netto, dritto, proprio come i rettilinei romagnoli sui quali era cresciuto.

Le cadute

Invece le salite, della strada come della vita, non sono mai lineari. Sono piene di pendenze che cambiano, di tornanti ciechi che non sai quello che trovi dalla parte opposta, di strappi che ti tolgono il fiato. Pantani non a caso è anche sinonimo di infortuni, ma non di quegli infortuni che succedono a tutti gli sportivi di tutti i livelli, tipo un muscolo che salta, una caduta in gruppo, un’infiammazione che ti toglie potenza e resistenza. No, gli infortuni di Pantani sono la carta degli imprevisti del Monopoli che ti piove addosso con tutta la sua feroce, quasi ironica, brutalità, in modi e maniere che non puoi proprio prevedere. Tipo un gatto che ti attraversa la strada in discesa, tipo una macchina che entra contromano in un percorso che doveva essere chiuso. Che c’è di più pauroso di vedersi piovere addosso il destino mentre sei a una velocità tale che non puoi in nessun modo evitare l’impatto? Pantani, si diceva, avrebbe fatto fatica a camminare normalmente, figurati a salire di nuovo in bici.

I trionfi

Ma tanto, spesso, la forza di volontà batte anche il destino ed è un’equazione che conoscono bene tutti quelli che in bici ci sono saliti almeno una volta e almeno una volta hanno provato a scalare una montagna più grande di loro. Che dove ti portano le tue gambe è frutto molto più della forza di volontà che dei tuoi muscoli, non importa quello che la natura ti mette davanti. Può essere neve, può essere freddo, può essere fango, può essere pioggia, può essere freddo e fango e pioggia nello stesso pomeriggio di luglio 1998, quello di Pantani che parte sul Galibier sotto una tempesta che proprio non si addice al caldo dell’estate francese. Può essere tutto quello che vuole e se tu sei Pantani puoi battere tutti, da Tonkov a Zulle a Hulrich, e tutto, anche lo scandalo Festina, anche il disegno di un Tour al quale hai partecipato solo per onorare la memoria di Luciano Pezzi, che non hai preparato, che non è nemmeno stato disegnato per te con soli due arrivi in salita e 116 km di cronometro. Di qua, a giugno, c’era stato un Giro d’Italia vinto in maniera estrema, col duello all’arma bianca di Plan di Montecampione, roba da guerriglia porta a porta di Stalingrado contro un russo indomabile, di qua ci sarebbe stato il Tour a completare una doppietta nello stesso anno che da allora non si è mai più vista e probabilmente, nel ciclismo moderno, non è replicabile.

Madonna di Campiglio

Di anomalo Pantani ha, anche, di essere diventato un mito da ancora vivo, mentre a quasi tutti gli altri succede solo dopo che sono morti o, se va bene, quando hanno smesso di correre, o di giocare, o di fare ciò per cui sono diventati famosi. Nel 1999 quando il Giro lo sgranocchia con sadica ferocia, anche in giornate in cui gli si pianta la catena e deve rimontare tutto il gruppo verso Oropa, i suoi avversari sanno che stanno facendo finta di resistere non a un uomo, non a un ciclista ma a una versione trascesa, illuminata, superiore di entrambe le cose. Troppo grande, forse, troppo ingombrante sicuramente. Pantani è come il baffo della Nike che non ha bisogno di mettere il nome sotto il logo, basta a sé stesso, è brand che si declina in un solo cognome e non serve altro. Almeno fino a Madonna di Campiglio. Succede ogni giorno, agli abitanti di questo pianeta, di ritrovarsi una notte in trionfo e risvegliarsi il giorno dopo senza avere più niente. La vita di Pantani finisce quel giorno di giugno del 1999 in cui viene escluso dal Giro con la maglia rosa addosso, finisce a tal punto che Madonna di Campiglio da quel momento in avanti diventa simbolo lei pure di caduta rovinosa dal regno degli dei e quasi nessuno quando la nomina fa riferimento a una ridente località sciistica. Madonna di Campiglio è oggi sinonimo di Pantani, simbiosi quasi, l’ultima carta degli imprevisti sul suo percorso. E’ dove finisce la salita e dove comincia la discesa finale.

Il declino

Che poi si voglia considerare i quasi cinque anni della sua vita successiva come vita vera, e non come un trascinarsi sempre più stanco di un uomo che prova senza successo a capire chi o cosa abbiano voluto farlo cadere in un fango che non credeva più di dovere assaggiare, è indifferente. Anche nel declino, anche nella cavalcata verso la morte che segue la salita, Pantani è simbolo e profeta. Non solo di tutti quelli che non ce la fanno e si lasciano andare, perché a volte certe salite sono più forti anche della forza di volontà, ma anche del torbido nascosto nelle pieghe di un paese che ama i suoi eletti solo per poterli denigrare con ogni forza il minuto successivo. Pantani l’eroe che prova a tornare in bici, esce di casa per allenarsi e torna indietro dopo mezz’ora perché la gente che lo incontra non lo chiama più Pirata, non lo incita né gli grida amore, ma lo insulta, gli urla drogato, gli rinfaccia un tradimento che lui sente di non avere compiuto, perché quello che è successo veramente a Madonna di Campiglio non si è mai saputo e non si saprà mai.

La fine

La fine è fatta di buio, di droga, si è sussurrato anche di mafia, di scommesse clandestine, di tutto il marcio italiano del quale si parla a fatica e quasi mai a proposito, di interessi e cifre talmente grandi da travolgere i personaggi che hanno la ventura o la sventura di finirci in mezzo. Come Pantani. La fine è fatta di una stanza di albergo solitaria a Rimini dove puoi morire nel giorno di San Valentino del 2004, da solo, in un altro grande mistero italiano che chissà se sarà mai risolto. Suicidio più o meno volontario, morte accidentale, omicidio. Ma cosa c’è di più straziante, di più terribilmente iconico, che andarsene nel giorno degli innamorati, nella terra in cui sei nato, nel paese che non ti ama più e non hai nemmeno capito perché? Contrappasso. Come quei percorsi vallonati in cui prima sali, poi scendi, poi si ricomincia da capo e così per km e km, senza nemmeno un metro di pianura per ragionare, per rifiatare, per capire in che direzione stai andando. Sei in un frullatore, giri in tondo, e Pantani era il più forte ad arrivare per primo in cima alla salita. In un mondo nel quale tornava sempre al punto di partenza, ma sempre un po’ più lontano dalla realtà, non ci sapeva stare. Il 13 gennaio 2020 avrebbe compiuto 50 anni. Ma, come tutte le leggende, li ha compiuti senza esserci e ne compirà tanti altri, in quel regno rarefatto come l’aria dei passi alpini nel quale ciò che ha rappresentato è molto più grande perfino di quello che è stato. Il simbolo delle salite e delle discese, del ciclismo come della vita.