
E’ piena di citazioni cinematografiche, la prima vittoria della Slovenia nella storia degli Europei. Nessuno la considerava tra le favorite alla vigilia. Nemmeno vicina, alle favorite. Ma presto tutti abbiamo scoperto che questi erano in missione per un’entità superiore, che per comodità chiameremo divinità cestistica, come Dan Aykroyd e John Belushi in Blues Brothers. Adesso uno guarda il percorso netto, otto vittorie su otto partite giocate, e sembra che la logica possa riassumere diciotto giorni di pallacanestro: ha vinto la squadra più forte che ha giocato la pallacanestro migliore.
Ed è vero. Se non fosse che sono successe alcune cosucce che raramente succedono anche in uno sport che centrifuga emozioni in pochi istanti come la pallacanestro. Slovenia contro Serbia in finale è più o meno come Torino contro Piemonte. Più che nazioni, regioni contro. Poi per convenzioni politiche, e per conseguenze drammatiche, hanno ognuna uno stato e una bandiera e un inno nazionale proprio. Ma la terra è la stessa e la vena cestistica pure. Un tempo, loro insieme a tutte le altre frammentate nazioni balcaniche, avrebbero giocato insieme come Yugoslavia. E a pensarci fa impressione, perché forse un concentrato dei migliori giocatori di questa smisurata fucina di talento spaventerebbe anche gli Stati Uniti. Però giocano la finale una contro l’altra. E di solito le finali continentali sono qualsiasi cosa. Intense, drammatiche, sorprendenti, imprevedibili. Ma non belle. Ritmi condensati, ma punteggio basso. Tra pochi anni, ma anche tra molti, ricorderemo invece questa finale come forse la più bella della storia degli Europei. Il punteggio, 93-85, lo dice in parte. Ma obiettivamente è quanto di più vicino alle Finals Nba si possa ricordare. Solo che lì sono sette partite. Qui è gara secca. Eppure è viso aperto e canestri. Tanti.
Poi la Slovenia ha in campo uno che finisce la sua esperienza in nazionale e uno che la sta cominciando. Dragic era il pittore che deve apporre la firma al capolavoro. E a un certo punto sta segnando 35 punti su 71 della sua squadra. Non è un refuso. 35 su 71. E 26 a fine primo tempo. In una finale. Roba che se la fa Steph Curry o LeBron James se ne parla per settimane. Roba che, in un tempo che fu, apparteneva a pochi. A uno in particolare. Drazen Petrovic. Suggestioni dal passato nel basket del presente. Doncic invece ha 18 anni ma di questa squadra è già padrone e veterano. Anche questo non è un refuso. Veterano e sei appena entrato nell’età degli adulti. 8 punti, 7 rimbalzi e 2 assist. Contro i serbi, che sono maestri a distruggere il tuo gioco. Quelle cifre, quelle di entrambi, a un certo punto si congelano.
Perché il destino è quel che è, direbbe l’infinito Gene Wilder di Frankenstein Jr. Il destino sembra essere sloveno. Troppi segnali, troppe conferme. Ma anche il destino sembrava sorridere alle Ferrari, sabato pomeriggio a Singapore. Sembrava. E a un certo punto Doncic si gira una caviglia nel terzo periodo. Ha le scarpe rosse, come le Ferrari, e come le Ferrari i suoi piedi si accartocciano al suolo. Non può rientrare e non rientrerà. Il destino è crudele. E nel quarto periodo diventa anche sadico, perché oltre alla giovane promessa elimina dalla partita anche il pittore che la sta firmando. Dragic si arrende ai crampi.
A quel punto il destino può essere di chi gli pare, ma la Slovenia gioca gli ultimi otto minuti senza i suoi leader, senza i suoi giocatori migliori, senza uno che ha segnato la metà dei punti della squadra e di fronte ha la Serbia che non si arrende mai, che è scientifica, che non brilla ma rimane attaccata alla partita anche in mezzo alla tempesta. La Serbia che si trova avanti 82-80 e tutti a pensare che da Singapore a Istanbul non ci sarà il lieto fine. Perché se vince la Serbia sarà meritato. Ma se vince la Slovenia sarà leggendario, eppure la logica ormai dice che non succederà. Il destino però raddrizza il tiro, perché tutto sommato ha un senso più alto di giustizia. La Slovenia senza il pittore e senza il giovane talento inventa un 12-0 di parziale firmato da Prepelic, da Blazic, da Anthony Randolph che è sloveno da giugno, è statunitense ma nato a Wurzburg, in Germania, dove nacque anche Dirk Nowitzki. Fu proprio Doncic, suo compagno del Real Madrid, a dire che Randolph della Slovenia fino alla primavera non sapeva neanche dove fosse sul mappamondo. Ma sono sottigliezze regolamentari che succedono da decenni nel basket Fiba. Randolph sa dov’è il canestro, che è l’unica cosa che conta. E’ un suo gioco da tre punti che spalanca la vittoria alla nazione che fino a tre mesi fa non sapeva collocare sulla cartina. La nazione che perde i suoi uomini più forti e mantiene intatta la propria voglia di completare la missione.
Ci sono gli sconfitti, e la Serbia perde la terza finale consecutiva dopo quella mondiale e quella olimpica. Non lo merita Djordjevic, mente raffinata dopo essere stata mano implacabile, non lo merita Bogdanovic che è campione d’Europa con il Fenerbahce e sarà dei Sacramento Kings da ottobre. Non lo merita la Serbia dei tanti infortunati, non nel secondo tempo dell’ultima partita ma già nella fase di preparazione agli Europei. Non c’è scampo più per me recitano entrambi, che è la fine della citazione che comincia con ‘il destino è quel che è’. Non c’è, ma è come se ci fosse, perché anche gli sconfitti per una volta sono delusi ma non tristi. Perché rispetti il tuo ruolo di antagonista nella favola, ma capisci che gli eroi sono quegli altri, quelli che non vincevano mai e all’improvviso scoprono come si fa proprio nel momento in cui perdono i loro due giocatori migliori. Somiglia, la favola, a quella della Danimarca nel calcio agli Europei del ’92. Quella squadra che non doveva partecipare vinse a sorpresa perché la Yugoslavia, che stava per smettere di essere tale, fu esclusa a causa della guerra. E questi slavi, che di quella guerra sono figli, hanno dato vita allo spettacolo cestistico più bello degli ultimi anni. La storia è ciclica. O meglio ancora, è rotonda. Come il pallone e come il canestro.