La coppa dei centimetri

In finale ci saranno Liverpool e Tottenham, ma potevano essere Ajax e Barcellona, Manchester City e Juve. Fisionomia di un torneo nel quale la sorte gioca un ruolo fondamentale

La cosa bellissima dei romanzi distopici (ma anche dei film e delle serie TV) è che ti permettono di vivere effettivamente all’interno di un universo inesistente, ma reale in quel momento, generato da episodi storici diversi rispetto a quelli che si sono realmente verificati. Per esempio The Man In The High Castle, che racconta come sarebbe stato il mondo se i tedeschi e i giapponesi avessero vinto la seconda guerra mondiale. Oppure, l’esempio più celebre, il 1985 alternativo in Ritorno al Futuro II nel quale la distopia si intreccia continuamente con il corso reale degli eventi fino a non distinguersi più.

Ora torniamo all’11 dicembre 2018, con il Liverpool in vantaggio sul Napoli 1-0. A pochi secondi dalla fine, Milik ha l’occasione di pareggiare, solo davanti al portiere. Calcia, ma quell’altro fa un miracolo, oppure lui non riesce ad angolare il pallone di quei pochi centimetri in più che servono per mandarlo in rete e la partita finisce così. Immaginate l’universo calcistico se avesse segnato: il Napoli agli ottavi a celebrare la gigantesca caratura europea di Ancelotti, arrivato proprio per questo obiettivo, e il Liverpool ai sedicesimi di Europa League. Oppure andiamo al 17 aprile 2019, Manchester City-Tottenham 4-3. La squadra di Guardiola, nel recupero, segna effettivamente il gol della qualificazione, ma il Var lo annulla per fuorigioco di pochi centimetri, forse meno di quelli che servivano a Milik per battere Alisson. In un futuro distopico, ma realistico, potevano esserci Napoli e City a giocarsi l’accesso alla finale. Oppure, storia fresca, l’8 maggio 2019, immaginate se i minuti di recupero in Ajax-Tottenham fossero stati quattro invece che cinque. Ipotesi plausibilissima. Moura non avrebbe avuto tempo di segnare il 3-2 e oggi staremmo celebrando i terribili ragazzini olandesi a un passo dal mettere le mani sulla coppa.

In mezzo ci sono stati altri eventi che potevano cambiare con un soffio di vento. La rimonta dello United con un rigore contro Buffon agli ottavi a tempo scaduto. La rimonta della Juve contro l’Atletico Madrid che non ci sarebbe stata senza le tre settimane tra andata e ritorno che hanno permesso ai bianconeri di recuperare al meglio Chiellini e Bonucci. La mancata vittoria della Juve sul campo dell’Ajax per un palo di Douglas Costa e la mancata partecipazione al ritorno di Chiellini, Douglas Costa, Mandzukic e tanti altri perché per recuperare c’era solo una settimana invece che tre. Il rigore negato alla Roma contro il Porto che avrebbe mandato i giallorossi ai quarti e lasciato Di Francesco sulla propria panchina. Dembelé che sbaglia a porta vuota il 4-0 al Camp Nou contro il Liverpool, segnando il quale al Liverpool non sarebbe bastato il 4-0 ad Anfield. Potremmo continuare all’infinito.

Il significato, in un’epoca nella quale tendiamo a razionalizzare gli eventi e a dare loro una spiegazione quanto più possibile logica, è che la storia la fanno i vincitori, ma in una competizione come la Champions League al posto del vincitore potrebbero esserci tranquillamente almeno quattro o cinque vinti e non ci sarebbe niente di anomalo. Se oggi diciamo che si può andare in finale come il Tottenham, senza spendere una singola sterlina sul mercato perché tutti i fondi sono finiti nella costruzione del nuovo stadio, ci dimentichiamo di dire che poteva tranquillamente esserci il City, con i suoi 600 milioni di euro investiti da quando è arrivato Guardiola. Se celebriamo il calcio beatlesiano del Liverpool di Klopp, ci dimentichiamo di dire che la stessa squadra ha perso quattro delle sei partite giocate in trasferta in questa edizione. Lo stesso numero di partite che ha perso Allegri in tutta la Champions League e per le quali si è trovato dentro un processo tattico e filosofico che non è ancora finito.

E’ semplicemente che, al contrario dei campionati, la Champions League non si può programmare fino in fondo e se la guardiamo nel lungo periodo vedremo emergere certi valori: vince chi ha la squadra più lunga e i giocatori più forti e il budget più ampio, tipo Real Madrid e Barcellona per cinque anni consecutivi (e anche il Real di CR7, per vincere tre edizioni consecutive, è passato nella stretta cruna dell’ago di decisioni arbitrali come minimo contraddittorie quando ancora non c’era il Var e la lotteria dei rigori a Milano contro l’Atletico nel 2016, per non dire di Sergio Ramos e il suo colpo di testa a tempo scaduto nel 2014). Ma se la guardiamo nello stretto, è fisiologico che in certe annate i valori vengano stravolti. Verona campione d’Italia nel 1985. Danimarca campione d’Europa nel 1992. Ed esattamente come non si può dire che il surriscaldamento globale non esiste solo perché siamo finiti dentro un maggio che pare novembre, nel 1985 non si poteva dire che bastava prendere scarti delle altre squadre per vincere lo scudetto e nel 1992 non si poteva dire che bastava convocare giocatori che fino al giorno prima erano in vacanza per vincere gli Europei. Il fatto che possa succedere, è sempre successo e succederà di nuovo nella storia del calcio, non lo trasforma in una regola. Soprattutto in Champions League, che viene spesso paragonata ai playoff Nba ma è sbagliato. Somiglia molto di più al torneo Ncaa, basta un giro, basta un tiro sbagliato, una giornata storta del tuo attaccante, un infortunio, una sostituzione azzeccata, un fuorigioco millimetrico per passare dalla parte giusta a quella sbagliata del risultato. La sua bellezza viene anche dal fatto che buona parte della sua essenza è aleatoria. Ma curiosamente, combattiamo questa evidenza cercando prove a supporto del fatto che Liverpool o Tottenham vinceranno grazie a una strategia pianificata nei minimi dettagli, mentre Barcellona, Real Madrid, Juve e Manchester City perdono perché non hanno lavorato abbastanza bene. La definizione migliore del gioco d’azzardo, perché la Champions League è e rimane un azzardo lungo otto mesi, è quella di Paul Newman ne La Stangata: ‘A questo gioco ci vuole un po’ di cervello e un po’ di culo’. Concetto semplice, illuminante, e proprio per questo quasi impossibile da digerire.