
Cleveland città perdente. Era un ritornello abusatissimo fino a qualche anno fa. Nello sport. Nell’economia. Nella criminalità. Nell’urbanistica. Cleveland era ‘The mistake on the lake’, l’errore sul lago Erie, un appellativo che rende giustizia a una skyline obiettivamente frutto di poco criterio estetico, ma poco riconoscente verso una città che era stata uno dei motori dello sviluppo economico a stelle e strisce fino agli anni Cinquanta. Cleveland non vinceva mai. Fino a LeBron James.
Se vogliamo dare un significato geografico alle Finals, lo scontro tra Cavs e Warriors è stato anche concettuale, sociale, non solo cestistico. E’ stato California contro Ohio. La solare bellezza dell’Oceano Pacifico contro la brutale violenza del vento di lago. E’ vero, Oakland è sicuramente un errore peggiore di Cleveland dal punto di vista urbanistico e della qualità di vita, ma i Warriors appartengono alla Baia e non a una singola città. E giocano proprio come ti immagini i californiani: col vento nei capelli, spensierati, abbronzati, incoscienti perché tanto tra poco arriva la prossima onda da cavalcare. E i Cavs giocano proprio come la loro città: duro, sodo, senza fronzoli, senza spettacolo. E sono per questo il simbolo di una comunità in netta ripresa.
A Cleveland hanno vinto un titolo dopo 52 anni, che in realtà è il primo successo dell’era moderna. Quello del 1964, vittoria dei Browns nel football americano, era arrivato quando ancora non esisteva il Superbowl. L’immagine di Cleveland città perdente è ferma a quegli anni, ma in Ohio stanno lavorando in silenzio e bene. L’economia è in ripresa, interi quartieri malfamati vengono ristrutturati e trasformati in zone trendy nelle quali trascorrere una buona serata in compagnia, c’è vita a downtown anche quando tramonta il sole. Ci si sta accorgendo anche di una tradizione musicale di primo livello, rimasta chissà perché in sottofondo per decenni, e che anche il servizio sanitario funziona meglio che in tanti altri stati più celebrati.
E poi, appunto, c’è LeBron. Il suo ritorno nel 2014 ha dato uno scossone all’economia locale, e non è un modo di dire. Il business è milionario e mancava però il sigillo per farlo esplodere definitivamente. Adesso salta in aria insieme ai tappi dello champagne che viene stappato oggi, alle 11 ora locale, con la parata celebrativa per gli eroi che hanno portato a Cleveland il titolo Nba, e per il suo figliol prodigo che aveva tradito e poi ripreso in palmo di mano la sua città. Parata non è la parola giusta: è migrazione di sudditi. A Cleveland sono stimati cinquecentomila abitanti, ma le sue strade si gonfieranno di un milione di tifosi, di adepti giunti da ogni parte dell’Ohio. Nessuno vuole perdere l’evento che non si è mai verificato, quello che mai nessuno ha vissuto. E occhio perché Cleveland resterà sulla bocca di tutti a lungo, nel 2016, non solo per ragioni legate allo sport. A luglio sarà location della convention del Partito Repubblicano, dove Donald Trump verrà sancito come pretendente alla Casa Bianca. Da Cleveland città perdente a Cleveland città di successo. Con tanto merito da parte del più forte di tutti, quello con la maglia numero 23.