Il 5 maggio del ciclismo, il giorno dell’addio a Gino Bartali

Il 5 maggio 2000 se ne andava Gino Bartali, l'unico sportivo italiano che non ha solo attraversato la storia, ma l'ha fatta effettivamente

Il 5 maggio, per l’Italia e per lo sport italiano, è tante cose diverse. Una poesia immortale di Manzoni in onore di Napoleone Bonaparte. Uno scudetto assegnato nel 2002 e conteso da tre squadre che quel giorno giocavano in trasferta, che doveva vincere l’Inter ma andò alla Juve. E la data di morte di Gino Bartali, il primo vero eroe del ciclismo moderno, l’anello di congiunzione tra la bici dei pionieri e lo sport che avrebbe fatto riversare nelle strade milioni di persone al suo passaggio. Bartali è stato talmente netto e definitivo, pure nelle sue infinite declinazioni, che anche il passaggio nell’altra dimensione lo è stato. Se n’è andato nel 2000, a transizione verso il nuovo millennio compiuta, a missione completata, con l’ultimo traguardo tagliato. Come se a 86 anni non ci fosse più niente da vedere, come se tutto ciò che si doveva pedalare era stato ormai pedalato e adesso toccava agli altri.

L’Italia e Bartali, Bartali e l’Italia

L’Italia al suo primo vero eroe del ciclismo deve molto più di quanto non si debba solitamente a un eroe dello sport e non è una frase retorica. Altri campioni c’erano stati prima di lui ma appartenevano e appartengono a un’epoca che è quasi preistorica, nomi come Girardengo, Binda, Bottecchia, sono pietre miliari, scintille che accendono il fuoco del ciclismo ma non lo illuminano perché dei primi ci si ricorda, ma ci si scorda anche, diluiti come sono in un’epoca nella quale le imprese di pazzi senza coscienza (perché questo erano i ciclisti degli albori, fenomeni da circo con un battito cardiaco senza senso che si imbarcavano in imprese massacranti su bici senza rapporti pedalando in tappe da 300 o 400 km che partivano di notte su strade e passi di montagna prevalentemente sterrati) si raccontavano a voce molto più che sulle pagine dei giornali. Anche lo stesso Fausto Coppi, che di Bartali fu contraltare, lo abbiamo con cura posizionato su un piedistallo sportivo e se il suo sinonimo diventa Campionissimo è perché con lui il ciclismo è diventato definitivamente quello che è oggi, uno sport magnifico e spietato ma pur sempre uno sport nell’accezione più alta del termine. L’anello di congiunzione tra queste due ere geologiche è appunto Bartali, che pure ebbe molti soprannomi, da Ginettaccio al Giusto, quasi mai attinenti al mondo dello sport. Il punto è che Bartali, per il momento storico in cui è comparso a bordo di una bicicletta, non ha attraversato solo la fase più critica dell’Italia nel ventesimo secolo. L’ha fatta. Per questo ha poco senso ricordare quanto e cosa ha vinto, visto che aveva vinto tutto, o ricordare le centinaia di km che pedalava in un’Italia sfasciata dalla guerra per consegnare clandestinamente documenti che salvarono altre centinaia di persone. La retorica dice che un campione affermato potrebbe esonerarsi dal correre certi rischi, così come l’aver scoperto quello che fece così tardi fu conseguenza di un uomo che credeva di avere fatto solo il proprio dovere e non qualcosa di cui vantarsi, figuriamoci essere ricordato per quello. Il bene si fa ma non si dice è una frase sua ed è diventata un proverbio. Anche Bartali diventò un proverbio, e poi uno slogan, e poi un cognome dentro una leggendaria canzone di Paolo Conte con i francesi che si incazzano e ancora oggi lo si incontra dappertutto nel linguaggio popolare. E il motivo è proprio che con assoluta certezza possiamo dire che Gino Bartali è stato il primo campione della storia italiana che la storia l’ha fatta e non l’ha solo attraversata. Come considerare altrimenti la vittoria al Tour de France del 1948, a 34 anni, il giorno dopo l’attentato a Togliatti che rischiò di fare precipitare il paese in una sanguinosa e irreversibile guerra civile? Se gli italiani hanno mai avuto per un solo giorno un sentire comune e un senso civile della patria, fu il 15 luglio di quell’anno. Bartali salva l’Italia si sarebbe detto negli anni successivi e si continua a dirlo. Forse non l’ha salvata, ma l’ha compattata per il tempo necessario a farla venire fuori da quell’imbuto potenzialmente fatale. Una missione che all’epoca, ancora, nessuna squadra di calcio e nessun calciatore poteva permettersi di portare a termine. L’uomo che salva i civili dai rastrellamenti, il ciclista che vede accorciata la propria carriera dalla guerra e poi salva dalla guerra il paese con le sue prestazioni da ciclista sono circostanze inedite e irripetibile per qualsiasi sportivo, non solo in Italia ma probabilmente nel mondo. Per questo il 5 maggio non ricordiamo soltanto l’uomo che ha portato il ciclismo in tutte le case, in tutte le piazze, in tutte le strade e anche nelle tracce dei temi della maturità della penisola. Ma ricordiamo soprattutto un uomo che ha enormi meriti nella costruzione e nelle definizione del paese che abbiamo conosciuto negli ultimi settanta anni.