I Knicks dimezzati, storia di un progetto che non funziona

La crisi di New York, raccontata dai numeri, dai nomi deludenti ma soprattutto dalle idee. Un vuoto che nemmeno Phil Jackson è riuscito a colmare

Da Mvp a Chi l’ha visto – La storia inizia, ma più precisamente prosegue, la settimana scorsa al Madison Square Garden. Ci sono i Knicks nel loro palazzo alle prese con una striscia di quattro sconfitte consecutive e arrivano i Pelicans. Avversario morbido della Western Conference, l’occasione per invertire la tendenza è ghiotta. Ma Derrick Rose, il play titolare strappato a Chicago in una delle trade più discusse dell’estate, alla partita non si presenta. E nemmeno avverte che sarà assente. E nemmeno entra alla seconda ora. E per avere una giustificazione, firmata dalla madre direttamente dalla Windy City, bisogna aspettare il giorno dopo. ‘Avevo un problema familiare’ dirà Rose. Esattamente quello che si scriveva sul libretto a scuola il giorno dopo le assenze in classe. I Knicks apparentemente non hanno fatto una piega. Non Jeff Hornaceck, coach dal dubbio futuro di successo Nba, che non si scompone. Non Phil Jackson, che con tutte le dita delle mani occupate dagli anelli, e gliene restano un paio che non sa dove infilare, da presidente dei Knicks è molto lontano dal ripetere quello che aveva fatto ai Knicks da giocatore.

C’era una volta a New York – Sì, ci fu un tempo lontano nel quale New York era una squadra simpatica. Trendy, hippy, alla moda. E infatti era intorno al 1970, Willis Reed era il capitano e il coach Red Holzman, quello che disse una frase rimasta scolpita nella pietra: ‘Il basket non è l’ingegneria atomica. Bisogna mettere la palla nel canestro da una parte e difendere dall’altra. E giocare di squadra, sempre’. Peccato che da allora, quando i Knicks vinsero due titoli in tre anni con la leggendaria gara 7 che abbatté ancora una volta i sogni di Wilt Chamberlain e dei Lakers in finale, la franchigia più difficile e sotto i riflettori del mondo abbia fatto tutto quello che poteva per complicare il basket e sé stessa. Molto raramente ha giocato di squadra: successe solo a metà degli anni Novanta, con i ruvidi Knicks di Pat Riley che andarono a una tripla stoppata da Holajuwon a John Starks per vincere il titolo. E circa un lustro dopo a quelli di Jeff Van Gundy, poco talento ma tanto cuore, in finale nel 1999 anomalo del lockout che tagliò mezza stagione regolare, spazzati via dai San Antonio Spurs che proprio all’epoca iniziarono la loro dinastia targata Popovich e Tim Duncan.

Tessuto temporale interrotto – A dire il vero c’era stato un momento nel quale i Knicks erano tornati a sembrare promettenti: nel 2010-11 c’era anche Danilo Gallinari in una squadra che comprendeva Wilson Chandler, Raymond Felton, un giovane Mozgov, David Lee, che correva e difendeva, che aveva ampi margini di sviluppo. Poi la dirigenza, il 22 febbraio 2011, decise di fare quello che all’epoca sembrava più razionale: smantellare una squadra potenzialmente in crescita per portare nella mela un prodotto di casa, Carmelo Anthony, grande accentratore di gioco, mano raffinata come lo zucchero, faccia d’angelo e incapace per tutta la sua carriera di essere un leader che cambia faccia alla squadra in cui gioca. E c’era D’Antoni in panchina, quello che oggi fa meraviglie ai Rockets e che all’epoca quello scambio non lo digerì mai prima di essere licenziato nella stagione successiva (ed eravamo al Garden quando Gallinari vi tornò da avversario per la prima volta: 38 punti, career high, e vittoria al supplementare di Denver).

Coach Zen senza filosofia – Come dice Giancarlo Migliola, e parafrasando un enorme Corrado Guzzanti nella serie cult ‘Boris’, gli unici che provano a tifare i Knicks sono quelli che poi prenderanno a detestarli. Non ne azzeccano più una, e occhio che da queste parti è passato con tanti mugugni e pochi sorrisi anche un altro azzurro, Andrea Bargnani, ricordato prevalentemente per una sconfitta provocata a Milwaukee dopo avere tentato una tripla senza senso con i Knicks avanti di due a diciotto secondi dalla fine. L’arrivo sulla poltrona presidenziale di Phil Jackson doveva portare criterio, progetto e prospettive. L’uomo dei sei titoli a Chicago, dei cinque ai Lakers, il filosofo in grado di trasformare il modo di pensare di una franchigia. Ma da quel 18 marzo 2014, quando venne presentato per aprire una nuova era al Madison Square Garden, non è cambiato granché. La prima stagione con uno dei suoi adepti del triangolo in panchina, Derek Fisher, è un disastro coronato dal nuovo record di sconfitte consecutive per la franchigia, sedici, e anche il 17-65 con cui finisce la regular season entra nei libri di storia come record negativo. Il 2015 vede l’arrivo di Porzingis dal draft, talento lettone di pregio, ma i playoff rimangono un miraggio. E che ti succede nell’estate 2016? Che i Knicks fanno più o meno quello che avevano fatto portando a casa Carmelo Anthony. Vanno sul mercato in cerca di un play per il nuovo coach, Hornacek appunto, e prendono Derrick Rose. L’Mvp del 2011, che ha passato gli ultimi quattro anni a combattere i fantasmi di ciò che era stato e non riusciva più a essere dopo il ginocchio saltato ad aprile 2012, è arrivato in compagnia di un altro nome illustre dei Bulls, Joachim Noah.

In mezzo al guado – Risultato, i Knicks si sono trovati di nuovo nella terra di nessuno. Non hanno ricostruito e adesso hanno tre vecchie stelle che il meglio in carriera l’hanno già dato e che passano molto del loro tempo in infermeria. Non sono diventati un instant team da titolo, come vedremo. Non hanno prospettive immediate perché il salary cap è ingolfato e non si presta a scambi vantaggiosi. Non sono una squadra divertente nonostante a leggere un quintetto con Rose, Anthony e Porzingis si penserebbe a qualche prelibatezza. E non sono nemmeno una squadra che farà i playoff se continua così. Sono però un gruppo di persone, dirigenti e giocatori, che si mandano messaggi più o meno in codice. Carmelo Anthony, dopo l’infortunio a Porzingis, è di nuovo sotto i riflettori. La stampa di New York, tra le più feroci del paese, sostiene che le sue gambe siano finite e che sia il più strenuo ostacolo che ci possa essere all’attacco triangolo con la sua tendenza all’uno contro uno smodato. Parole forse indotte da Jackson, che è amico di molti giornalisti della mela, forse no, ma in grado di generare una reazione. ‘Se non mi vogliono più ai Knicks ne parleremo. E’ frustrante vedere che se vinciamo è merito della squadra, ma se perdiamo è colpa mia’ ha detto Anthony nel fine settimana.

Le cifre – I Knicks non compaiono in nessuna statistica di squadra pregiata della Nba. Navigano nell’anonimato. Hanno il quindicesimo attacco della Lega, 105.3 punti a partita, sono ventesimi per percentuale dal campo con il 44.5%, sono dodicesimi per percentuale da tre con il 36.2%. Sono una delle squadre che produce meno recuperi a partita, 7.3, sono la quarta migliore squadra a rimbalzo offensivo, 12 a serata, ma solo perché con basse percentuali c’è più possibilità che il pallone torni nelle mani di chi l’ha tirato. Non difendono, quinto peggiore defensive rating della Lega con 108.1 e soprattutto non hanno identità.

Chi siete, cosa portate (un fiorino) – Quando hai Derrick Rose e Carmelo Anthony sai che difficilmente la palla uscirà dalle mani di uno dei due quando si tratta di opzioni offensive. Ma Rose, a parte la fuga non dichiarata, ha smesso da tempo di essere un giocatore che con la sua verticalità spacca le difese avversarie e non si è mai trasformato in un tiratore costante, con il risultato che i difensori tranquillamente evitano di fare un passo in più verso di lui. Anthony ha sempre segnato tanto, ha sempre tirato più degli altri, va spesso fuori ritmo e quando succede diventa un buco nero che inghiotte gli altri quattro. Doveva diventare la squadra di Porzingis ma il lettone deve fare con le briciole che avanzano, e spesso è positivo oltre i numeri. Noah ha speso il meglio della sua furia agonistica ai Bulls, giocatore con longevità inversamente proporzionale all’energia che mette in campo, sarebbe adatto a una squadra che ha bisogno di rimbalzi e difesa per completare il quadro (Golden State per esempio) e non a una creatura senza capo né coda. Lee, O’Quinn, Plumlee, Kuzminskas sono tessere poco rilevanti del mosaico. E Brandon Jennings, quel Brandon Jennings visto a Roma e ‘incartato anche da Peppe Poeta’ (citazione di Roberto Sbrega, geniale tassista romano dedito alla Nba) non sta andando male nel ruolo di riserva di Rose ma è anche lui vittima della contraddizione di una prima scelta del draft che finisce a svernare a Manhattan senza avere dato un senso concreto alla sua carriera.

New York batte Phil Jackson – I Knicks vinceranno qualche altra partita e apriranno altre strisce perdenti di quattro, cinque, sei sconfitte di seguito. Hanno abbastanza talento da vincere una quarantina di partite, se va bene, e se si allineano i pianeti anche di fare un ottavo posto per vedere che effetto fa affrontare LeBron James e compagni. Ma il progetto di Jackson, e la sua mano, non si vede all’orizzonte. Con grande rammarico del commissioner Adam Silver, che vede esplodere il prodotto Nba senza che la città più famosa del mondo ne sia protagonista attiva da quando è iniziato il nuovo millennio. Figuratevi cosa succederebbe se i Knicks iniziassero a essere simpatici e a vincere qualche serie playoff.